lunedì 14 maggio 2018

Mario Quattrucci, Troppo cuore

La parola da cui partire per intendere, manzonianamente, il sugo della storia è l’attributo “ultima” riferito all’“inchiesta”. Del commissario Marè, certo, apparentemente, anzi illusoriamente, sbattuto là, sulla coda del titolo, per confondere le acque. Ovvio che, trattandosi di un’inchiesta giudiziaria, il commissario Marè, che la conduce, anche se poi muove altre pedine, sia non solo l’attore – sì, l’attore, la maschera principale, colui che muove le fila stesse dell’indagine. L’autore, invece, che lo manda allo sbaraglio, è alluso per allegoria. Dietro le quinte o, meglio, dietro le righe. Quasi come una narrazione autobiografica per interposta persona. Ma, come nel Pasticciaccio di Gadda, e nelle ultime quasi borgesiane inquisizioni di Montalbano, il delitto – di cui né il commissario né il suo reticente scrittore, come se parlasse per interposta persona, sembrano inorridire, è solo la faccia apparente, la maschera superficiale di un crimine più diffuso, più profondo, che inquina per intero tutta la vita sociale dei personaggi, a loro volta maschere, o – chi sa – specchi, del lettore, dell’ “ipocrita” lettore che vi si dovrebbe riconoscere, più che fratello, complice. La reticenza dello scrittore allude proprio a questa complicità. Diradiamo la sciarada. E’, questo, forse, il libro più amaro di Quattrucci. Quasi un tirare i conti, non già della propria vita, ma della vita del paese in cui è nato: niente, perciò, sembra oggi piacergli di questo paese. Se serve uno straccio di spiegazione, lo dice anche con i versi di canzoni famose cantate da interpreti famose. Come questi da una canzone di Billie Holiday: “I’ll never be the same / There is such an ache in my heart”. Heart, cuore. La parola del titolo, troppo, sempre troppo. La reticenza, in fondo, è una forma di difesa. A guardare il mondo con il cuore non è, infatti, che la sua figura si deforma, come in un quadro di Francis Bacon, che anzi essa appare in tutta la sua bruttezza e quell’occhiata può perfino portare al crimine. Ogni capitolo ha per esergo il testo di una canzone. Billie Holliday sta nel 18° capitolo. Uno dei personaggi chiave del romanzo – e della vicenda – dice a un certo punto: “Siamo in una crisi profonda, Marè. Di sistema, di civiltà …, culturale: dello spirito pubblico. E’ crisi della democrazia, disaffezione, distacco dallo Stato, lacerazione della società civile e abbandono”. Lo stesso personaggio, una gallerista, poco prima, a proposito di Francis Bacon, aveva detto: “La deformazione, sì. E’ quella che delinea più di un Rembrandt l’anima dell’Uomo … e del mondo perciò. - Siamo tutti così? - chiede il vecchio. - Più o meno, senza scampo. La nostra doppia natura … - riprende la signora. - E ciascuno di noi, ci dice Bacon, è quel contorto groviglio che svelato, o se si mostri in qualche modo, sconvolge i nostri tratti. E ciascuno lo ha dentro quel dolore ...quel terrore e orrore …, che ci rendono capaci di ogni cosa: sublime o maledetta”. Poco più avanti, sempre lo stesso personaggio: “Ma io non credo che la deformazione di Bacon voglia indicare soltanto la compresenza del male … No: io penso che egli voglia piuttosto parlarci del dolore, della sofferenza, della contraddizione che ognuno di noi …, e la vita …, porta in sé. E non solo di ciò che è dentro di noi, intrinseco all’individuo, ma di quanto ci è inflitto dall’esterno”. La gallerista, Marella (il nome sembra una variante femminile del nome del commissario, e forse non a caso), ha un ruolo fondamentale nel romanzo, è anzi la chiave che lo spiega, madre di uno dei sospettati del delitto. Perché il romanzo si apre subito con un delitto, anzi con un cadavere: quello di un’avvenente, affascinante e avviluppante cantante di jazz, la gezzista, come la chiamano molti, Angela, in arte Angelica. Anche qui: nomen omen. Intorno a lei, alla ricostruzione della sua vita si muove tutto un mondo solo apparentemente normale, tranquillo, innocente, che ama l’arte e la musica. Circola, invece, cocaina, si traffica con organi di bambini rapiti, si specula sui finanziamenti di società benefiche. Il compito del commissario è di scolpare il primo sospettato subito indagato dalla polizia. Che naturalmente è quello sbagliato. Il romanzo è un racconto d’inchiesta e dunque non si può dire troppo per non rovinare l’effetto, davvero sorprendente – ma poi non eccessivamente – della soluzione finale. Attraverso la Roma che appare, Monti, San Saba, c’è la Roma scomparsa. E c’è la lingua dei romani, e quella lingua italiana romanizzata, che rende così caratteristica la prosa di Quattrucci, anche se qui meno invadente che negli altri suoi libri. Anche il ritmo della prosa è, infatti, lento, riflessivo, trasuda tristezza per ogni sillaba. Come la vicenda che racconta. E c’è sfoggio di cultura, di letteratura, di arte, ma per vie indirette, sulla bocca dei personaggi. L’altra cultura, quella che ha forgiato questa prosa e lo sguardo dello scrittore sulla vita, è più nascosta, va letta tra le righe, nell’attributo insolito, nel nome buttato lì che improvvisamente risveglia, in chi abbia frequentato il mondo romano del cinema e della musica, improvvise accensioni del ricordo, ferite mai rimarginate, quasi prustiane intermittenze del cuore (sempre lui!). Sì, prustiane, come direbbe Marè. Per esempio: Maria Pia Fusco. Mi si permetta un ricordo personale. Festival di Spoleto. Ristorantino raffinato, ma familiare. Lo stesso dell’albergo in cui sono alloggiato. Scendo e mi siedo a un tavolo. La proprietaria – amica da anni – mi illustra i piatti del giorno. E’ notte inoltrata, dopo lo spettacolo. Alzo lo sguardo, e al tavolo di fronte scorgo Maria Pia con un’amica. Le invito al mio tavolo. Parliamo e beviamo fino a notte fonda, la bottiglia di vino regalata dalla proprietaria. Una vita di spettacolo scorre via dalle bocche, e pettegolezzi di giornale – Maria Pia scriveva sullo stesso giornale per il quale scrivo anch’io – ridiamo, alziamo troppo il gomito, e rientriamo più che alticci ciascuno nella sua stanza. Che c’entra con il romanzo di Quattrucci? si domanderà il lettore. Il fatto, niente. Ma il modo del ricordo, tanto. Così come la ferita al cuore. Di nuovo, sempre lui. Tutto il romanzo, infatti, vive di questo continuo sussultare dei ricordi, perfino l’inchiesta scava nei ricordi della donna morta ammazzata. E, appena nominato, ogni luogo risveglia memorie, ogni figura richiama somiglianze, speranze tradite, paure avveratesi. Quattrucci racconta un delitto, o meglio le indagini sull’attore, più che sull’autore, di un delitto. E attraverso le ipotesi di assassinio prende corpo l’assassinio di una società, il seppellimento di una cultura. Chi ha compiuto il crimine di ammazzare la cantante può, forse, finire dietro le sbarre, ma il crimine collettivo che ha demolito una società, come lo si potrà punire, isolare, rinchiudendo un intero popolo in un carcere di massima sicurezza? Ed è di questo crimine, che attraverso la maschera dell’assassinio della gezzista, ci parla, in questo bellissimo, amarissimo romanzo, Quattrucci. E ci lascia con la bocca amara, il cuore – eh sì! di nuovo lui! - pesante, stramazzato per terra, troppo grave, troppo sfracellato, per tentare di raccoglierlo.

Dino Villatico

Fiano, 9 maggio 2018

Mario Quattrucci, Troppo Cuore. L’ultima inchiesta di Marè, Robin Edizioni, 2018, pagg. 312, € 15,00

Michela Murgia, Accabadora, una riflessione, dieci anni dopo

“Fillus de anima.
……………………
“Nel suo profilo sottile lui riconobbe qualcosa di compiuto che gli era familiare, e sorrise. Insieme come erano arrivati, tornarono a casa fianco a fianco, del tutto incuranti di dare alle bocche di Soreni l’ennesima occasione di parlare di niente”.

Sono l’attacco e le righe finali del romanzo. Come un cerchio che racchiude il segreto di essere sardi. Attribuire all’emozione l’intensità della chiarezza intellettuale: senza distinzione tra ciò ch’è razionale e ciò che non lo è. Convenzioni del Continente, la distinzione. Ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno. Il bene e il male non c’entrano. La morale non è qualcosa che riguardi la loro vita. Lo sa perfino il prete: “Don Franziscu chiese se doveva venire per l’estrema unzione, e da come Maria rispose che glielo avrebbe fatto sapere al momento opportuno, il prete capì che il momento opportuno non sarebbe mai giunto, ma ebbe il pudore di nascondere il sollievo”. La religione, se ne hanno una, di questa gente non ha niente a che vedere con Cristo. E per molti versi la durezza della loro vita conosce comprensioni e tenerezze che Cristo, ma soprattutto il il Continente ignorano. Ma anche ossessioni, rabbie, ferocie che non cessano, da cui non si guarisce. Può essere anche l’appropriazione illegale, spostando i muretti di confine, di pochi metri di terreno. La morte, che si piange anche quando del morto non importa niente, solo perché una morte, comunque, fa piangere, e quando una morte si presenta all’appuntamento si deve piangere. La morte, anche la più terribile, la più lunga, è riconosciuta come un sollievo, una liberazione, perché, diversamente dal Continente, non ci si nasconde che la vita può essere peggio. E c’è dunque chi, amorosamente, a quel peggio mette fine: l’accabadora, dallo spagnolo acabar, finire, colei che aiuta a finire la vita.
Queste righe non sono una recensione. Ma riflessioni buttate giù, dopo avere letto il romanzo. E letto solo adesso, dopo nove anni dalla sua pubblicazione. Mi sono sempre lamentato della sciatteria dei nuovi scrittori italiani, soprattutto di quelli che vincono lo Strega o il Campiello o il Viareggio. Poi ho scoperto invecen che, nascosti, esistono alcuni giovani scrittori fuori dal coro, che non cercano di abbindolare il lettore, sono duri, impietosi,la realtà che raccontano è la catastrofe dell’Italia di oggi. Fanno esattamente il contrario, dunque, di quello che fanno gli scrittori affermati. Michela Murgia possiamo dirla, però, già affermata, e pubblica con un editore importante. Ma è lo stesso una voce fuori del coro. Gli scrittori affermati seducono il lettore scrivendo quello che il lettore si aspetta di leggere. Questi scrittori fuori del coro, invece, raccontano una realtà ancora più brutta, ancora più dura, di come il lettore italiano medio se l’aspetta raccontata in un libro. A cominciare dai titoli: Dalle rovine (Luciano Funetta), Gli indecenti (Paolo Marati), De peccatis nostris (Massimiliano Felli). Ci aiutano a capirla, questa realtà, proprio perché non illudono che se ne possa dare un ritratto più benevolo. Non vogliono infondere consolazione, ma suscitare consapevolezza. Sono pochissimo noti. Ma scrittori per davvero. Una prosa essenziale, mai sciatta, che non cede ai lenocinii della scrittura pubblicitaria odierna. Sono il contrario di un Volo, di un Moccia. Ma ritorniamo a Michela Murgia.
Potrebbe venire in mente il nome di Grazia Deledda. E c’è chi l’ha fatto. Ma è troppo ovvio. Poiché è una scrittrice sarda. In qualche modo, una straniera, per gli italiani del Continente. Ma come lo furono, a loro modo, anche Svevo e Pirandello, e più indietro ancora, Ippolito Nievo. Ma il mondo di Michela Murgia è un altro, e non solo perché è un mondo a noi contemporaneo. E’ altro il suo sguardo sul mondo, non solo sulla Sardegna, ma anche su Torino. Mai lo sguardo della scrittrice, sempre quello del personaggio. Si pensa a Flaubert, a Zola. Ma sarebbe fuorviante, perché il naturalismo, il realismo non c’entrano. E tanto meno la versione italiana del verismo. Lo scrittore, anzi la scrittrice è assente, ma si fa visibile con la scrittura. La prosa è scarna, va diritto all’osso. Sorprendenti e originali i paragoni, sembrano provenire da un’antica tradizione di cantastorie – Omero era uno di questi – ma in realtà sono cavati fuori da esperienze vissute. Hanno tuttavia il sapore di una memoria collettiva. La storia è lineare, semplice, priva di colpi di scena, ma non di tensione. Potrebbe sembrare perfino un racconto di formazione, e in parte lo è. Non di qualche privilegiato pupillo di una borghesia intellettuale, ma della figlia, rifiutata, di una madre contadina che non può mantenerla e perciò la cede a una donna sterile, come fill’e anima.Ma man mano che si snoda la vicenda accade che a maturare consapevolezza non sono solo i personaggi, bensì anche il lettore. Il racconto è pieno di fatti, eppure sono narrati come se a filtrarli fosse la coscienza dei personaggi. Niente monologo interiore, oppure tutto il romanzo è un monologo interiore, ma coniugato alla terza persona, singolare e plurale. Raramente si sente pronunciare il pronome io. Come se i confini della persona fossero trasparenti, mobili, si allargassero alle cose, agli altri personaggi. Più che attraverso le parole, i personaggi s’intendono con gli sguardi, i silenzi, i gesti. Quando s’intendono. E la cosa più terribile, Maria, la fill’e anima, la intende tardi. Che la madre adottiva è un’accabadora. Maria rifiuta di accettarla. “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo”, l’ammonisce l’accabadora. La formazione consiste proprio in questo: che alla fine capirà, accetterà, berrà quell’acqua. Ma non per necessità. Bensì, per pietà, per amore. Perché assistere a una sofferenza di cui non si prevede la fine è sofferenza maggiore di porre volontariamente fine a quella sofferenza. La vita continua. Nel villaggio si continuerà a “parlare di niente”. Viene in mente la conclusione di un altro grandissimo romanzo, dove, anche lì, la sofferenza deve cedere il passo alla vita che continua, sempre uguale. “Tornò a guardare il mare, che s’era fatto amaranto, tutto seminato di barhe che avevano cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta e disse: - Ora è tempo d’andarsene, perché fra poco comincerà a passar gente. Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu”. Verga, I Malavoglia.

Michela Murgia, Accabadora, Torino, Einaudi, 2009, pagg. 166, € 11.00

venerdì 11 maggio 2018

Petit poème en prose

PETIT POÈME EN PROSE
(souvenir des chats de Baudelaire)

à Fabio et Lidia, souvenir de Salvo

Figaro l’ho trovato una sera sotto una fontana di Villa Sciarra. Uno scricciolo nero che urlava di solitudine e di fame. Più ancora, forse, di abbandono. Lo raccolsi e cominciai ad accarezzargli la nuca. Smise di strillare e cominciò a fare le fusa. “Prendilo con te!” disse l’amica che era con me. Lo portammo a casa. Ma ci fermammo, prima, in una macelleria a comprare un po’ di carne macinata. Era già abbastanza grande per non imporgli la solita ciotolina di latte. Si rivelò, poi, goloso di milza. Gliela scottavo un po’, la mattina. La divorava avidamente, grugnendo di piacere. Gli piacevano anche le alici, ma se non erano più che fresche le rifiutava, grattando con la zampetta destra il pavimento. Il veterinario mi proibì di dargli polmone. Era rachitico. Per un mese gl’infilai così un ago sotto la pelle. Figaro non protestava. Si lasciva fare tutto, da me. Ma guai se ad avvicinarsi fosse stato un altro. Fu sempre diffidente con gli estranei. Quando veniva a trovarmi un amico, mi saltava sulle ginocchia e scrutava l’intruso. Se gli garbava, scendeva dalle mie ginocchia per saltare sulle sue. Altrimenti, restava accucciato sulle mie. E ogni tanto mi guardava, interrogativo: ma quando se ne va? C’era un amico che veniva più spesso, e con lui prese subito confidenza. Quando entrava, gli si strusciava sui pantaloni per farsi carezzare. Quella sera, appena tornato a casa, gli diedi su un piattino la carne macinata. La divorò in un attimo. E, alzando il muso dal piatto pulito e leccato, mi guardò interrogativo: già finita? Non volevo abituarlo a intrufolasi subito tra le coperte. Chiusi, perciò, la porta della camera da letto. Cominciò una lagna peggio che a Villa Sciarra, e dovetti riaprire la porta. Saltò subito sul letto e volle infilarsi sotto le lenzuola. Lo tirai fuori e lo misi ai miei piedi. Ma lui tornò sopra, e si accucciò accanto alla mia faccia sul cuscino. Lo lasciai fare. Avremmo dormito sempre così. A quell’epoca mi alzavo presto, per raggiungere il liceo dove insegnavo italiano e latino. Preparavo la milza, o le sardine, o altro, mi vestivo, e uscivo. Lasciavo aperta la porta del giardino e lui usciva per le sue perlustrazioni. Al ritorno, però, appena rientravo e socchiudevo l’uscio, mi urlava da un vaso accanto alla porta: dove sei stato tutto questo tempo? Abitavo lungo le mura del Vaticano, intorno solo villette e giardini. Aveva dove scorrazzare senza pericolo. O, almeno, così credevo. Ma non avevo fatto i conti con quanto Figaro fosse possessivo, e avesse un’idea molto esclusiva del rapporto tra me e lui. Il sabato e la domenica erano sacre al sonno e mi svegliavo più tardi degli altri giorni. Ma se si faceva troppo tardi, venivo a un certo punto, svegliato dal suo naso umido che strusciava il mio naso e, aprendo gli occhi, vedevo i suoi, sgranati, che mi fissavano. Fui nominato, qualche anno dopo, commissario d’italiano alla maturità in un liceo di Treviso. Condussi Figaro da mia madre, al Castello di Santa Severa. Una festa per lui, con tante gatte a disposizione. L’anno dopo il cortile del Castello era pieno di gatti neri che ruzzolavano tra le pietre. Quando, finiti gli esami, tornai a riprenderlo, mi scorse di lontano, fece un urlo e mi corse incontro, ma appena giunto ai miei piedi, mi fissò, esplose in un miagolio acuto e scappò via. La notte, me lo sentii salire sul letto e accucciarsi sul cuscino, mandando fusa furibonde. Venne poi una sera che avevo ospiti in casa, tanti, avevo organizzato una cena per ringraziare gli amici delle tante che mi erano state offerte. Qualcuno, oggi, non c’è più. E, proprio perché quella sera resta indimenticata, indimenticato è anche il dolore di chi c’era ed è scomparso. Tra costoro, anche Figaro. Rientrò d’un tratto e, quando vide quella ressa di gente, fece un salto, e corse via, nel giardino. Non l’ho più rivisto. Mi restano i dorsi scorticati delle partiture sulle quali si affilava le unghie. Il suo brontolio d’intesa quando saltava sul letto, il pelo caldo sul mio braccio. Le fusa interminabili quando si accucciava sul cuscino. E la lacerazione di quell’assenza improvvisa, inaspettata, del ritorno mancato, della tenerezza che mi penetra il cuore, ricordando, ma che resta inespressa. Era un bellissimo gatto che pesava 8 chili. Ma era un gatto snello, per niente grasso, una pantera. Credo che mi capisse con uno sguardo, come io capivo lui. Non so che cosa darei, per ritornare indietro e chiudere la porta della cucina, appena l’avevo visto rientrare. La tenerezza perduta è una malattia dalla quale non si guarisce. Anche, o soprattutto, la tenerezza di un gatto.

Fiano Romano, 11 maggio 2018