martedì 8 agosto 2017

David Trueba, Tierra de Campos

David Trueba, Tierra de Campos, Barcelona, Anagrama, 2017, pp. 404. € 20,90. Esiste anche in formato digitale epub, e in pdf.

“Hacerse adulto puede que signifique aceptar el caos o al menos aprender a convivir con él”, pag. 393. Farsi adulti può darsi che significhi accettare il caos o quanto meno imparare a convivere con esso. Chi sa, sta forse qui il succo di tutto il romanzo. Che comincia con un fatto incomprensibile: un carro funebre davanti a una casa in cui non c’è nessun morto. Il narratore, Dani Mosca, al secolo Daniel Campos, cantautore di un certo successo, piano piano, svegliato di soprassalto dai figli, prende coscienza della situazione. Ai figli, dai nomi strani, Maya e Ryo (poi si capirà che figli di una moglie giapponese, Kei, violoncellista, dalla quale si è separato), papà papà c’è un carro funebre davanti casa, chi è morto? Dopo vari capitoli, tutti, come nel resto del romanzo, dai titoli strani, frasi di dialogo, di riflessioni, di spezzoni del capitolo stesso, in cui si racconta l’infanzia – la cugina a cui chiede di fargli vedere le tette, il cugino con cui confronta le misure del proprio cazzo e del suo, e la loro capacità di schizzo, la scuola cattolica di preti ignoranti, oltre che cinici, ipocriti e ancora franchisti, di compagni anarchici, con cui poi mette insieme una banda musicale, e le sortite, le prime scopate, l’istitutrice di nuoto, Oliva, di cui s’innamora e diventa amante per anni, dopo tutto questo, ai figli glielo spiega che ci fa quel carro funebre davanti casa, e per spiegarglielo, altri capitoli raccontano di come all’aeroporto di Barajas, la ragazza del check in gli dice che non ci sono posti sul volo per Mallorca, proprio nessuno? Nessuno, e Dani scoppia a piangere. La ragazza s’impressiona, si commuove, chiede se si sente bene, che cosa è successo? E’ morto mio padre. Allora la ragazza si affanna a cercare tre posti, per Dani e per i figli. E intanto chiede: da molto? Da un mese. E il narratore riflette che non aveva pianto quando il padre era morto, ma piange adesso che non può portare i figli a Mallorca, che a casa la madre con l’Alzheimer non lo riconosce più, gli fa domande senza senso. Tuttavia alla fine i posti si trovano, e parte per Mallorca con i figli. Ma siamo ancora a meno di un terzo del romanzo. L’amore con Oliva, l’istitutrice di nuoto. E la fine dell’amore. Le canzoni, il successo, l’irruzione di Gus, già nel collegio, spudoratamente gay, e guida del gruppo. La morte di Gus per overdose, liquidata come suicidio dalla polizia, per nascondere il festino di gente importante. Il viaggio in Giappone, l’avventura con Kei, la sua vita a Tokyo per cinque anni e poi il ritorno a Madrid. Impossibile riassumere la trama. O si dovrebbe riraccontare tutto il romanzo punto per punto, rigo per rigo. Il racconto procede avanti e indietro negli anni. I dialoghi inseriti nella prosa come parte della narrazione, indispensabile momento della sua sintassi, senza segni d’interpunzione, senza virgolette né trattini. Ecco, il vero miracolo di questo romanzo è la sua prosa, fluida come un racconto parlato, come uscisse via via dalla bocca del narratore. Eppure, invece, controllatissima, misuratissima, discorso diretto e indiretto s’intrecciano, passano l’uno nell’altro continuamente, senz’interruzione. Lessico quotidiano e lessico colto anch’essi s’intrecciano come la sintassi ora spezzata, breve, colloquiale, esclusiva d’ogni coordinazione che non sia paratattica, ora invece complessa, riflessiva, inclusiva delle forme più complicate di subordinazione. Un maestro, che non teme confronti. Le pagine sulla madre sfidano quelle di Proust. Ma, naturalmente, appaiono più disinvolte, più casuali, meno compiaciute della loro sottigliezza, e tuttavia ugualmente amare, intrise di un dolore ugualmente inguaribile. Ma poi c’è il rapporto continuo, persistente con il padre. Un rapporto ossessivo, ma colmo di amore, si direbbe un figlio innamorato di suo padre e suo padre del figlio. Il confronto, la sorpresa, ad ogni nuovo accadimento, di somigliargli. E pensare che si credeva invece l’opposto, che litigavano sempre, che non andavano mai d’accordo in niente, nemmeno nell’arredamento della casa, non parliamo della scelta di vita: scrivi canzoni? E si vive con questo? Ma quando te lo trovi un lavoro serio? E ad ogni scoperta di un’affinità insospettata, invece si chiede: si eredita, questo? La continuità degli affetti, padre, madre vera e madre adottiva, lui figlio di uno stupro perpetrato dal padre, ma la madre adottiva tenera come una madre vera, amici, amanti, si perpetua nel tempo, anche quando il rapporto s’interrompe, perché si muore, perché si perde la ragione, perché finisce un amore, o semplicemente perché la vita cammina, e ciò che si vive, una volta vissuto, resta indietro, non si riacciuffa. Porto mio padre nel cimitero del paese in cui è nato, spiega finalmente Dani ai suoi figli. Glielo devo. Non amava Madrid. Era rimasto un contadino di Castilgia, l’ebreo cacciato dai Cattolici, tutti i Campos (cognome di molti ebrei rimasti in Spagna, e assimilatisi ai cristiani), sì, di tutti Campos che non se ne erano voluti andare via. Il gioco di parole in italiano è intraducibile: campo significa campo come in italiano, ma è anche appunto un cognome ebraico e il nome di unterritorio della Castiglia. L’ebreo Campos, cristianizzato. aveva potuto perfino combattere con Franco, per Franco, e sentirsi così più spagnolo degli spagnoli. Ma poi gli altri morti, non erano anch’essi spagnoli? E aveva smesso di combattere per Franco, di credere in Franco. Gli ebrei rimasti si chiamavano Campos, come le terre di Castiglia a nord di Madrid. E quella terra era il suo nome, il suo sangue. Il romanzo racconta il percorso da Madrid a Campos sul carro funebre con la bara del padre, a guidarlo un emigrante colombiano, la festa del villaggio per il ritorno del figio celebre, e gli incontri con i comapgni d’infanzia, i cugini, le cugine, ormai anch’essi adulti, invecchiati, disillusi. Festosi solo di questa festa insperata, la festa per il seppellimento del padre di un figlio celebre, natientrambi nel villaggio, da cui erano invano scappati via, qui sono le tue radici, gli dice il sindaco con cui da ragazzo si misuravano il cazzo, perché rispondergli: non ho radici? E poi il racconto, brevissimo, del ritorno a Madrid con i figli e con Animal, il batterista del gruppo, sul furgoncino delle tournée di cantautore. La figlia ha raccolto un gattino e se lo porta con sé. Questo viaggio di andata e rotorno dura 404 pagine. E durante il viaggio si ripercorre tutta la vita del cantautore. Si pensa a Quevedo, allo stesso Cervantes: a tutta una tradizione spagnola in cui si raccontano gli emarginati, i solitari, i sognatori. Si pensa ai film di Almodóvar, e prima ancora di Buñuel. Si impara a essere figli quando si è diventati padri, dice Dani a un certo punto. E’ l’altro senso del libro, può darsi, una volta imparato a convivere con il caos, si è pronti per essere figli, per diventare padri. Lo dico senza pudore: è uno dei libri più belli che mi è capitato di leggere negli ultimi anni.

Fiano Romano, 8 agosto 2016

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