lunedì 31 luglio 2017

Risposta a un perplesso insoddisfatto e frustrato

Riflessioni intorno alle perplessità di un lettore riguardo alla Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam

Che cosa rispondere a un lettore insoddisfatto, anzi frustrato dalla lettura di Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam?

Ecco la sua “recensione” sul sito IBS:

Libro difficile. Insolito. Molto personale. Che cosa rimane dopo la lettura? Molta insoddisfazione. Uno stato di quasi frustrazione. In generale. Forse qualche idea su cui riflettere giustifica la fatica e il tempo consumato: 1. << Leggere Dante è prima di tutto un lavoro interminabile, che a misura dei nostri successi ci allontana dalla meta>> (43) 2. << La Divina commedia non tanto sottrae tempo al lettore, quanto piuttosto glie ne fa dono [?]>> (54) 3. << A volte Dante sa descrivere un evento in modo tale che di esso non rimane assolutamente nulla. Per far ciò egli usa un procedimento che vorrei chiamare metafora eraclitea [?]>>(75) e più avanti << A una domanda diretta, senza preamboli, su cosa sia la metafora dantesca, risponderei che non lo so, perché della metafora è possibile dare solo una definizione metaforica [?]>> (116) 4. << È impensabile leggere i canti di Dante senza volgerli al presente >>.(79-80) Sulla traduzione: non sempre felice, anzi farraginosa, incomprensibile. (89) E infine ritengo che dovrebbe essere vietato per legge fare un prodotto come questo. Dico un prodotto che a una bella - perché semplice - copertina aggiunge un testo le cui pagine non si possono voltare perché se lo fai ti rimangono in mano. È semplicemente un'indecenza! E poi, ancora: la prima di copertina del testo pervenutomi non è la medesima in mostra sul sito di IBIS e che ho ordinato! Due copertine, di cui una solamente per 'adescare'?! p.s. il voto è basso soprattutto per il manufatto.
28/12/2015 14.58.14
Va dato merito a Vincenzo Esposito di motivare la sua insoddisfazione. Ma sono proprio le motivazioni a lasciare perplessi. L’attacco è identico alla bella recensione di Claudio Napoli, Università di Pisa, Settembre I: La Divina Commedia nella Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam. “La Conversazione su Dante è un'opera di difficile lettura. Per meglio dire, è un'opera di difficile classificazione”. Ecco, Esposito doveva partire da una ricerca sul web e avrebbe trovato questa recensione, che gli avrebbe spiegato il suo disorientamento. La critica dantesca non è una passeggiata, né la “spiega” di un manuale scolastico. Anche una singola pagina di Auerbach è difficile. Per esempio il bellissimo saggio sulla “figura”, in cui si discute sull’allegoria, e si precisa che il termine allegoria è troppo generico, che già Dante lo suddivide e precisa meglio nella lettera a Can Grande della Scala, che sarebbe preferibile usare la categoria di figura, usata nell’esegesi biblica medievale. L’agnello è figura di Cristo, ma non cessa per questo di essere anche figura di sé stesso. Nella Commedia tutto è figura di altro, ma è anche, alla lettera, ciò che si racconta. Le frasi che Esposito cita dalla conversazione mandelstamiana e che addita come incomprensibili rientrano in questo duplice binario della significazione concettuale e poetica. Esposito doveva sapere in anticipo che Mandel’štam è poeta, e lo è in maniera molto particolare, partecipa al movimento degli acmeisti russi, ma ne sviluppa una propria individuale reinvenzione. Ciò che scrive, anche quando non scrive poesia, rinvia sempre a un significato altro da quello che è detto. Sembra quasi conoscere la poetica indiana del dhvanya, secondo la quale nella poesia il significato sta non in ciò ch’è detto, ma in ciò che non è detto, un sottotesto o, meglio, un pre-testo, che il lettore, o l’ascoltatore, devono scrutare al di sotto del senso esplicito delle parole. Del resto la poesia russa, direttamente o indirettamente, ha legami consapevoli ma anche inconsapevoli con la poesia orientale. Colpisce, nel lettore napoletano, l’incomprensione di questa frase del poeta russo: “Leggere Dante è prima di tutto un lavoro interminabile, che a misura dei nostri successi ci allontana dalla meta”. Mandel’štam dimostra qui di avere, invece, profondamente inteso il senso e lo spirito della Commedia, un poema i cui molteplici sensi non si esauriscono con una spiegazione, ma che anzi ogni spiegazione accresce di nuovi sensi il passo che si legge, e così all’infinito, in un rapporto continuo, e personalissimo, bidirezionale, tra poeta e lettore. La prima spiegazione, o il primo chiarimento di una “figura”, non ne esaurisce, infatti, il senso, ma apre la via a una serie interminabile di altri sensi. La lettura, qualunque lettura, della Commedia, è solo uno dei possibili modi di leggerla: aristotelicamente, tutte le potenziali altre letture in essa contenute, dovranno attuarsi in successive, molteplici e mai conclusive letture. In realtà qui il poeta russo sta parlando, non tanto di Dante, o non solo di Dante, ma della sua ossessione di una vita: la poesia. Che a Esposito sfugga questo carattere della lettura di un poeta, lo dimostra un’altra frase da lui citata come incomprensibile: “A una domanda diretta, senza preamboli, su cosa sia la metafora dantesca, risponderei che non lo so, perché della metafora è possibile dare solo una definizione metaforica”. Tra parentesi quadre Esposito colloca un punto interrogativo. Ma che cosa c’è d’incomprensibile in questa corretta definizione della metafora? In greco moderno la parola metafora indica i mezzi di trasporto. La lingua parlata, a volte, capisce il linguaggio meglio di qualunque critica. La metafora è in effetti un trasporto, i latini dicono traslato, e cioè un senso che rinvia a un altro senso, ma non a un altro senso preciso, bensì a una schiera, a un ventaglio di sensi, dei quali nessuno è quello ultimo, ma tutti rinviano a un senso altro, e per spiegarlo, qui, io sto usando una metafora, proprio come afferma Mandel’štam, che “della metafora è possibile dare solo una definizione metaforica”. Che la spiegazione di una metafora stia in tutte le metafore successive, innumerabili, contenute nella metafora iniziale, è l’assunto principale della “conversazione” (e non saggio) del poeta russo. Quando dico “brucio d’amore” non sto certo dicendo che sto prendendo fuoco, e già questa è un’altra metafora, né che sono pazzamente innamorato, e “pazzamente” è un’altra metafora, o che mi consumo dal desiderio, altra metafora ancora, e così via. Che poi l’espressione sia diventata luogo comune e perfino banale dimostra solo la forza che possiede una metafora, al punto di rendersi comprensibile, senza essere specificata, perfino nel linguaggio quotidiano. Petrarca chiama “luci” gli occhi di Laura. Noi stessi, nel linguaggio quotidiano, diciamo di qualcuno o di qualcuna, che i suoi occhi sono “luminosi”. Ma vogliamo con questo dire solo che diffondono luce, sono pregni di luci (altra metafora!)? La luce è immagine dai molteplici e profondi significati. Perfino di salvezza, per un credente: la luce della salvezza. E tali appaiono a Dante gli occhi di Beatrice. Per Petrarca, anche lui credente, ma il cui amore non ha nulla di salvifico in senso religioso, la luce rinvia a un altro tipo di salvezza, o addirittura a tutti i tipi di salvezza. La conoscenza di sé stesso, tanto per cominciare. Ovvio che in questa poesia entrano di prepotenza anche espressioni e figure del linguaggio religioso. Proprio dall’esempio del Petrarca, che a sua volta si confronta sia con lo Stil Novo sia con gli amatissimi poeti provenzali, nasce anzi la trasformazione dell’innamoramento e poi dell’amore, come processo di un culto iniziatico. E’ stato facile denigrare il petrarchismo per il proliferare di poeti mediocri (ma ce ne sono anche di altissimi!) che hanno fatto uso e abuso delle metafore petrarchesche. Ma basterebbero i sonetti di Shakespeare o le poesie di Donne e su su le corrosive metafore di Baudelaire o di Rimbaud o gli enigmi di Mallarmé a riconoscere nel modello petrarchesco l’abissale metafora di quasi tutta la poesia europea. Non vi sfuggono nemmeno i contemporanei, Eliot meno di altri. O il nostro Montale. Meriggiare pallido e assorto riecheggia, perfino nel ritmo, un famoso, e bellissimo, sonetto del Petrarca: Solo e pensoso, i più deserti campi. Scriveva, poco prima, qualche rigo sopra la frase citata riguardo alla metafora, Esposito, citanfo la Conversazione: “A volte Dante sa descrivere un evento in modo tale che di esso non rimane assolutamente nulla. Per far ciò egli usa un procedimento che vorrei chiamare metafora eraclitea”. Di nuovo un punto interrogativo tra parentesi quadre. Che cosa c’è d’incomprensibile? Eraclìto è il filosofo del perenne fluire delle vicende e delle cose, in apparente contrasto con la permanenza dell’Essere parmenidea. Ma sono invece le due facce di uno stesso problema: la realtà che ci appare mutevole e sempre in movimento ha forse radici in una sostanza, o evento, immutabile. I filosofi cosiddetti presocratici cercavano il principio unico che tiene insieme la molteplicità del mondo e forse dei mondi (Newton e Einstein non cercano niente di diverso). Ma lo cercavano non già in un principio astratto, bensì nella concretezza della materia. Per esempio, l’acqua, per Talete. O i quattro elementi originari, acqua, terra, aria, fuoco, per Empedocle. O gli atomi, particelle indivisibili, per Democrito. E per loro è materia anche il linguaggio. Se ne ricorderà Lucrezio. Ma anche Aristotele, che fa tesoro delle loro ricerche naturalistiche. Mandel’štam si ferma al significato di flusso, di corrente. Ma proprio perché in questo fluire vede l’inesauribile moltiplicarsi dei sensi. E di nuovo, parlando di Dante, sta parlando della poesia. E, senza aver letto Auerbach (il saggio Figura fu pubblicato più tardi) dice quasi le stesse cose. Ma non dimentichiamo che Roman Jakobson era russo e che il Formalismo del Circolo di Praga, da lui fondato, ha dunque radici russe. Da questa costola nascerà lo Strutturalismo, che, però, in parte, ne sterilizza la carica eversiva, la fecondità critica allusiva. Possiamo fermarci qui. Le altre frasi citate come stralunate e incomprensibili, si chiariscono facilmente, esercitando, appunto, le nostre capacità di leggere le metafore, e lo scoglio che il lettore incontra a comprenderle è l’ostacolo che sempre incontra chi si nega a penetrare il molteplice della poesia. Il lettore napoletano non si scoraggi, è in buona compagnia. Galilei, fervente ammiratore dell’Ariosto, non amava il Tasso, gli riusciva, appunto, incomprensibile. L’equilibrato, armonioso mondo ariostesco gli pareva abbandonato per un modo confuso, inafferrabile, in-significante. In realtà proprio il Tasso avrebbe dovuto fargli capire quanto d’incommensurabile, incomprensibile, sfuggente, molteplice si celi anche dietro la chiarezza dell’Ariosto. Quanto d’ineffabile dietro le immagini trasparenti di Raffaello. Galilei critica anche il linguaggio del Tasso. Sofronia è condotta nuda al patibolo e si vergogna. Tasso scrive: “Raccorse gli occhi”. Immagine bellissima, questo ritrarsi degli occhi dalla nudità visibile per nascondersi nell’intimità del pudore. Ma Galilei non la capisce, ed esplode: “E che? Le eran caduti?” Prende la lettera, senza capirne il senso metaforico. Ma se non afferri la metafora, perché leggi la poesia? Anzi, perché ti occupi di letteratura? Perfino gli scrittori che programmaticamente dicono di attenersi al reale non possono sfuggire all’ambiguità letteraria. Chi è Madame Bovary? C’est moi, dichiara Flaubert. Ah, sì? Allora non è solo la povera donnetta di provincia che ambisce a un’esistenza diversa, più nobile, più acclamata? Eh, caro Galilei, caro Esposito, la poesia è sempre altro da quello che apparentemente dice. E lo è anche la critica della poesia, quando si confronta con testi dell’ampiezza e della complessità della Commedia. Ma fosse stato un sonetto di Shakespeare le cose non sarebbero state diverse. Per non parlare del suo teatro. Chi è Amleto, chi Lear, chi Macbeth? E che vuol dire Amleto quando confessa all’amico Orazio che il suo cuore è malato (ill)? O Macbeth quando dice di sentirsi scorpioni nel cervello? O Lear, quando proclama che la natura è ingrata? Per correggersi subito: la tempesta che lo assale e lo fustiga, non è sua figlia, non può essere accusata d’ingratitudine. Chi non è disponibile all’avventura di penetrare dentro mondi molteplici, interminabili, innumerabili, si tenga lontano dalla poesia e dalla letteratura. Non è il mondo della logica. Non è nemmeno il mondo dell’irrazionale, come qualcuno suggerisce, per salvare capra e cavoli. Si ha un’idea molto ristretta della Razionalità se la si delimita nella Logica. La Logica è solo una parte, anzi uno strumento, della Ragione. Aristotele, infatti, la chiama appunto strumento, organon. Ma la Ragione ha sguardo più vasto (metafora!). E sarebbe impossibile senza il linguaggio. La razionalità della poesia sta proprio qui, nel fatto che è linguaggio. Non che usa il linguaggio, anche la scienza lo usa, ma che è essa stessa linguaggio, solo linguaggio. Lucrezio lo capisce benissimo e lo canta divinamente. Metafora anche l’attacco del poema che invoca la Natura sotto la figura dell’alma Venus, Venere nutrice, generatrice. Chi lo direbbe? Il poeta della scienza che fonda la scienza della poesia. Non è un gioco di parole. E’ proprio così, nel momento che con il canto nasce il linguaggio, poesia e scienza sono indissolubilmente congiunte. Per questo scrive un poema e non un trattato. Anche qui, Aristotele aveva visto giusto: senza linguaggio non c’è conoscenza. E anche la poesia è conoscenza dell’universale. Al linguaggio Aristotele dedica trattati fondamentali, dalle Categorie, al De Interpretazione, alla Retorica, alla Poetica. E nell’Etica a Nicomaco specifica che i metodi della conoscenza, della ricerca della conoscenza, non sono gli stessi in tutte le scienze, ma devono adeguarsi all’oggetto della ricerca, la ricerca delle leggi del comportamento umano non è condotta con lo stesso metodo con cui la matematica calcola le proporzioni del reale, anche se sempre si tratta di linguaggio. Ma sono andato troppo lontano. La neurobiologia moderna ha scoperto che le zone del cervello che presiedono all’emozione e all’elaborazione logica sono contigue e che se una delle due si guasta anche l’altra non funziona. Tutti gli accaniti sostenitori di una separazione tra razionale e irrazionale, tra emozione e riflessione, tra spirito e materia, sono serviti. Spinoza lo aveva intuito più di tre secoli fa. La scienza moderna gli dà ragione. Fanatici accoliti di tutte le religioni, fatevene, appunto, una ragione. Lettori di poesia: non indietreggiate davanti all’incomprensibile. E’ probabile che proprio entrando dentro quel labirinto (metafora!) ciò che vi appare incomprensibile diventi comprensibile e da quel punto ciò che avete appena compreso vi apra la strada per nuovi ancora incomprensibili territori. Non perdetevi d’animo. Ogni lettura scopre cose che alla lettura precedente erano sfuggite.

Fiano Romano, 31 luglio 2017

domenica 30 luglio 2017

L'improvvisazione nella pratica musicale

Un post, su Facebook, di Luca Ciammarughi, che discute la polemica suscitata da Jordi Savall, intervistato sulla Stampa, riguardo all’improvvisazione nella musica antica e no, mi ha suggerito alcune riflessioni. Eccole. Non vogliono chiudere una questione, che non può essere chiusa, ma solo discussa, ne ardiscono prendere posizione per uno o l’altro campo della polemica, tradizionalisti contro improvvisatori come scrive Sandro Cappelletto, o più esattamente il titolo del suo articolo, sulla Stampa del 29 luglio scorso, pag. 33. Non si tratta di questo. Nei conservatori francesi s'insegna ancora a improvvisare. In Italia no. Forse da qui nasce l’equivoco. E la polemica. La Stampa la definisce un “caso”. L'improvvisazione ha fatto parte della pratica musicale per secoli, anzi per millenni, direi. Con l’avvento della monodia accompagnata, la realizzazione di un basso cifrato, anche in una pagina contrappuntistica, richiedeva e richiede grande fantasia d'improvvisatore. Ma l’improvvisazione, l'abbiamo oggi confinata quasi solo alla pratica del jazz e della musica cosiddetta di consumo. Un pianista, la realizzazione del basso cifrato, se non la trova già elaborata e scritta da qualcuno sulla partitura stampata, può trovarsi talora disorientato, spesso messo alle strette e incapace di suonarla, vale a dire d’inventarla. E forse anche qualcuno dei clavicembalisti troverebbe qualche difficoltà. Savall su questo ha ragione. Il problema è, però, di non demonizzare nessuno. Nemmeno coloro che richiedono un sacrosanto rispetto della scrittura sei-settecentesca, che chiamiamo genericamente e non sempre propriamente barocca. Un amico, grande clavicembalista e grande esperto di musica rinascimentale e barocca, Sergio Vartolo, mi ha detto una volta che spesso i pianisti suonano Bach con più fantasia dei clavicembalisti, i quali apparirebbero spesso – ma non sempre - più timidi e rigidi, meno liberi. Invece proprio i clavicembalisti dovrebbero sfoggiare una inesauribile fantasia d'improvvisatori. Questo mi sembra conciliare gli opposti. Perché scegliere un campo o l'altro, quasi eserciti in guerra? Emilia Fadini, colei che ha curato una nuova edizione critica delle Sonate di Scarlatti, mi disse una volta che tra le tante cose che pensiamo di restaurare filologicamente non restauriamo l'unica che i musicisti barocchi ritenevano davvero indispensabile: la libertà e la fluidità dell'interpretazione. Probabilmente se noi, con la macchina del tempo, potessimo ascoltare oggi Chopin suonare Bach, inorridiremmo. Eppure quel suo Bach spiega tante cose della sua musica. I suoi Studi e i suoi Preludi, per esempio. Ma non solo. Anche le sue Mazurke. E perché no? A parte la raffinata elaborazione contrappuntistica, con gli anni sempre più fitta, è bachiana la stilizzazione e complessa nobilitazione di una danza. Bisognerà ritornare, inoltre, a una corretta interpretazione del termine "filologia": rigorosamente, è legittimo applicarlo solo alla ricostruzione di un testo. Il resto è ipotesi, opinione, libertà. So che mi attirerò molti strali, da una parte e dall'altra, che sarò frainteso e attaccato. Ma il termine, strettamente letto, indica solo la ricostruzione di un testo. Poi, quanto all'interpretazione del testo, dipende dalla cultura, dalla fantasia, dalla sensibilità del lettore. I grandi filologi classici ci hanno restituito con una certa probabilità (la certezza in filologia non esiste, e forse non esiste in nessuna disciplina) i testi dei poeti e degli antichi scrittori greci e latini. Ma il testo così ricostruito è lasciato poi all'interpretazione del lettore. L'ultimo, sublime, canto dell'Iliade, i lunghi, struggenti lamenti sul cadavere di Ettore, non dicono a tutti i lettori la stessa cosa, non suscitano né le stesse riflessioni né tanto meno le stesse emozioni. Ma questo, lungi dall’essere un difetto, è la ricchezza della poesia.

Fiano Romano, 30 luglio 2017

lunedì 17 luglio 2017

Ricordo di Mario Lunetta

Ricordo di Mario Lunetta



Si è artisti solo al prezzo di sentire ciò che tutti i non artisti chiamano “forma” come contenuto, come “la cosa stessa”. Con ciò ci si ritrova certo in un mondo capovolto: perché ormai il contenuto diventa qualcosa di meramente formale – compresa la nostra vita.
Nietzsche, Frammenti Postumi Novembre 1887 – Marzo 1888, 11, 3, Nizza 14 novembre 1887. Traduzione di Sossio Giametta, Milano, Adelphi, 1970.
(Le sottolineature sono di Nietzsche)

... tutti parlano della Grecia
in toni
visibilmente drammatici
quanto meno
preoccupati
e carichi di partecipe angoscia
senza sapere il greco/senza magari aver mai dato/
un'occhiata ai versi di Saffo
o alle tragedie di Euripide
attentissimi invece all'eterno sorriso di Tsipras
e all'andatura palestrata di Varoufakis
mentre
anche nell'istante di un istante fa l'Europa oligarchica
non cessa di disfarsi nel suo nulla
Mario Lunetta, Trascurabile

Conoscevo poco Mario Lunetta, e ancora meno le sue poesie e i suoi lavori teatrali Ne ammiravo, però, lo spirito civile. Rileggendo, ora che ci ha lasciati, taluni suoi versi, mi si stringe un groppo alla gola. Poco fa ho postato un pensiero di Leopardi, tratto dallo Zibaldone, in cui invita gli italiani a vergognarsi del loro presente. Sono passati quasi due secoli, da quando il giovane Conte Giacomo Leopardi scriveva quelle riflessioni di così bruciante attualità (24 marzo 1821). Vuol dire che siamo ancora fermi lì? L’amarezza del poeta recanatese si riflette poi nei versi di Carducci (sì, anche lui!), di Montale, di Sanguineti. E di Lunetta. Per esempio, questi, sopra citati. Ma ciò che colpisce – ferisce? - il lettore di oggi è la persistenza di quest’amarezza, la sensazione, divenuta presto consapevolezza, di essere un esiliato o, peggio, uno straniero nel proprio paese, e di parlare nel deserto. Se si va indietro con la memoria, riflessioni simili si riscontrano già in Dante, in Petrarca e, naturalmente, in Machiavelli. Su su fino Salvemini, Brancati, Pavese (cito a caso). Quasi a riconoscere che l’Italia resta, nei secoli, il paese di un disadattamento: al consesso delle altre nazioni, al confluire dei popoli del mondo e, infine, tutto sommato, a sé stessa, come se stentasse a individuare una tradizione, un ruolo, una funzione, che la collochi, a pari diritto, tra le nazioni dell’Europa e del mondo. Sempre ai margini, petulante, lagnosa, cenciosa ma con manie di grandezza, arrogante, vanitosa, mai consapevole dei propri limiti e delle proprie manchevolezze. Perfino un conservatore come Macron ha appena riconosciuto i torti della Francia verso il mondo. Nessuna protesta di orgoglio offeso tra i francesi. Noi, si stenta a dichiarare pubblicamente i crimini commessi nelle colonie, anzi perseguiamo chi li denuncia (Del Boca), o insceniamo pagliaccesche apologie del fascismo sulle spiagge del paese. Tra l’altro, secondo la Costituzione, quella Costituzione, che la valanga dei No al recente referendum ha voluto mantenere qual è, questo sarebbe un reato punibile a termini di legge: la libertà di pensiero non c’entra, come invece qualcuno ha invocato, perché ogni democrazia condanna e proibisce il pensiero e l’azione che vorrebbero abolirla. Chi sa, forse è destino anche dell’Italia, come lo fu della Russia, di uccidere i propri poeti. Il lamento di Roman Jakobson ci risuona nelle orecchie, non solo dal suo aureo libello, ma dalla sua voce che lo andava proclamano nell’Aula Magna dell’Università di Roma, nei primi anni ‘60, e io, allora neofita del formalismo russo del circolo di Praga e dello strutturalismo, lo ascoltavo rapito. Come quando, poco dopo, Roland Barthes c’ingiunse di “leggere” Racine. E ci parlava di Heine e di Schumann, facendoci ascoltare la voce di un baritono francese. Ecco, “ri-leggere” i versi di Mario Lunetta mi ri-squaderna in faccia quei discorsi, quelle voci, quella funzione del poeta, dello scrittore, del filosofo. Ri-leggo come ri-leggo i versi di Dante che Serena Vitale pone a epigrafe delle Ottave di Mandel’štam:

Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume
ciò che per l’universo si squaderna;
sustanze e accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dicoè un semplice lume.

E che cos’altro è trascorrere da Saffo, Euripide a Varoufakis? Di nuovo la contrapposizione tra l’amarezza di constatare una mancanza, un’assenza, una disfatta, e la frivola vanità di un presente che non guarda oltre il profilo del proprio naso. Guardiamoci negli occhi: quanti di noi, qui, oggi, vi si riconoscono? Quanti riconoscono il fallimento, la sconfitta? E guardano, inebetiti, il deserto del mondo che si crede un supermarket? Che, anzi, non sa dare di sé altra immagine che quella di un supermarket? Il distico, citato qui sotto, fa pensare anche al finale apocalittico della Coscienza di Zeno. E chi sa che questa Apocalissi, senza che ce ne accorgiamo, non sia già incominciata. A ricondurci all’insensibilità dell’inorganico.

Questo mondo carnivoro costruito dall'uomo per l'uomo
cambierà in meglio solo con la sua scomparsa.
M. Lunetta, Le scarpe, come sempre
(cfr. Svevo, La coscienza di Zeno, “l’occhialuto uomo”)

Ecco il passo dello Zibaldone leopardiano:

Se noi dobbiamo risvegliarci una volta, e riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto dev’essere, non la superbia né la stima delle nostre cose presenti, ma la vergogna. E questa ci deve spronare a cangiare strada del tutto e rinnovellare ogni cosa. Senza ciò non faremo mai nulla. Commemorare le nostre glorie passate, è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti è conforto all’ignavia, e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione. Oltre che questo serve ancora ad alimentare e confermare e manteere quella miseria di giudizio, o piuttosto quella incapacità d’ogni retto giudizio, e mancanza d’ogni arte critica, di cui lagnavasi l’Alfieri nella sua Vita rispetto all’Italia, e che oggidì è così evidente per la continua esperienza sì delle grandi scempiaggini lodate, sì dei pregi (se qualcuno per miracolo ne occorre) o sconosciuti, o trascurati, o negati, o biasimati.


Leopardi, Zibaldone, 24 marzo 1821 (pag. dei quaderni 865).


Fiano Romano, 17 luglio 2017

domenica 16 luglio 2017

Una breve riflessione sulla poesia, a proposito di Quasi leggera morte

Qualche riflessione su Quasi leggera morte. Ottave, di Osip Mandel’štam. A cura di Serena Vitale, Milano, Adelphi, 2017


Sto leggendo l’ultima fatica di quella straordinaria lettrice di poesia che è Serena Vitale: Osip Mandel’štam, “Quasi leggera morte. Ottave”. Premetto che non conosco la lingua russa. E’ un mio grande rammarico. Se esiste la reincarnazione, in un’altra vita voglio impararla: se non altro per leggere alcuni dei più grandi poeti dell’Occidente, a cominciare da Puškin. Ma: e Blok, e Majakovskij, e Achmatova, e Cvetaeva e Pasternak? Guerra e pace l’ho letto che avevo 16 anni e non mi è mai più uscito dalla mente e dal cuore. L’Idiota, uno o due anni dopo. Lo stesso. Lessi Memorie dal sottosuolo mentre avevo cominciato la lettura di Kafka. Sono punti di riferimento1 alla Boulez: vale a dire pilastri della mia consapevolezza. Ma devo arrendermi allo scoglio della lingua (per fortuna, non per Kafka). Per uno che ama la poesia come me, e che sente l’intimo legame tra lingua e poesia, non è uno scoglio da poco. E’ anzi un ostacolo insormontabile. Tanto più che la poesia russa, come quella di altre lingue slave, e come la poesia tedesca e inglese, ha conservato la percezione della quantità, la stessa che ammiriamo nella poesia classica greca e latina. Mandel’štam scrive trimetri, tetrametri, pentametri giambici. Una sorta d’incunabolo della metrica indoeuropea. La ritroviamo in Sofocle come in Shakespeare come in Goethe. Ma con Sofocle, Shakespeare e Goethe mi trovo in una terra conosciuta. Nella terra di Puškin e di Mandel’štam, sunt leones. Eppure ne respiro una certa familiarità fin dall’adolescenza, quando in famiglia è entrata la moglie croata di mio zio. Frasi elementari croate so ancora pronunciarle. Ma soprattutto mi è familiare (alla lettera!) il suono della lingua, il suo consonantismo, la percezione della durata delle vocali, quello che oggi fa impazzire tanti italiani che leggono l’accento delle lingue slave che usano l’alfabeto latino come se fossero accenti tonici e sono invece indicatori della durata delle vocali. Gli italiani dicono Ianàcek e dovrebbero invece dire Iànaacek, per il compositore ceco Janáček. Per non parlare di Dvořák, che quasi tutti dicono Dvorgiàk ed è, invece, più o meno, Dvórgiaak. Da mia zia ho imparato il valore semivocalico della r e della l. Morte in croato e in russo si dice smrt. L’accento tonico cade sulla r. Trieste in croato è Trst. Anche qui l’accento tonico cade sulla r. Mi è servito poi quando ho cominciato a studiare il sanscrito. Ma torniamo al bellissimo volumetto curato dalla Vitale. Ci tornerò su quando ne avrò completato la lettura, fittissima, intensa, che richiede una costante attenzione. Ecco qua la prima ottava, nella traduzione della Vitale:

Amo l’apparizione del tessuto
quando una, due, più volte
manca il fiato e infine arriva
il sospiro che risana.

E tracciando verdi forme,
quasi archi di vele in regata
gioca lo spazio assonnato,
bambino ignaro della culla.

Il primo impatto farebbe esclamare: ma è incomprensibile! All’incomprensibilità, tra l’altro, contribuisce l’ignoranza della lingua. Poi leggi, nel commento, che nella tradizione russa si trova spesso la metafora del tessuto come materia della poesia. I versi dunque parlano della poesia: anzi, della nascita della poesia. Poi entra in gioco il senso di una costruzione, della visione di una regata, e sono i versi che sfilano, s’impennano, come vele, nascono quasi autonomi dalla penna del poeta, come se non ne avesse consapevolezza, e tuttavia proprio nella costruzione del verso sta la sua consapevolezza. Tutti coloro che inneggiano alla poesia immediatamente comprensibile, all’intuizione illuminante, alla crociana “espressione del sentimento”, sono qui serviti. “Se un’opera in versi si rivela riassumibile, lì la poesia non ha mai messo piede ...” dichiara Mandel’štam. Mi sono sentito felice a leggere quest’affermazione, espressa da un grande poeta. Perché riassume in una frase ciò che credo di avere capito fin da bambino, fin da quando mia madre mi fece leggere La quiete dopo la tempesta, e capii subito che la tempesta non è solo la tempesta. La poesia nasce dal corto circuito di pensiero ed emozione, l’uno senza l’altra non produce poesia, non canta. Quando nel primo canto del Paradiso, mentre il personaggio Dante e la sua guida Beatrice salgono al cielo della luna, il poeta Dante (che non è il personaggio!) mette in bocca a Beatrice un inno all’armonia dell’Universo, per spiegare il senso di quel volo che apparentemente infrange la legge della gravità (Dante non la conosceva come tale, ma sapeva che i corpi scendono, cadono, il fuoco invece sale). Non cito a caso Dante. E’ un saggio su Dante il testo teorico più significativo di Mandel’štam. Dante personaggio aveva chiesto alla sua guida come mai il suo corpo vincesse la forza di gravità – nella lingua scientifica di Dante: come mai invece di cadere il suo corpo saliva. Beatrice sente il bisogno d’inquadrare la spiegazione in un ordine universale delle cose. Dante non lo conosceva. Ma si pensa a Lucrezio. Lo spirito è quello: la poesia come febbre della conoscenza. E Beatrice attacca:

Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro e questo è forma
che l’Universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l’alte creature l’orma
dell’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Nell’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar dell’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.

Se il lettore non sa che “forma” è il termine tecnico con cui Aristotele, e quindi San Tommaso, definiscono la struttura delle cose, come capirà questo lettore la sublime poesia di questo passo? Ecco: anche la poesia richiede erudizione, conoscenza, studio, applicazione, ostinata insistenza di comprensione. Chi non vuole affrontare lo sforzo, se ne tenga lontano. L’idea che un’opera debba riuscire immediatamente, intuitivamente comprensibile è l’idea di chi vuole semplificare la realtà, nasconderne la complessità, perché costerebbe fatica affrontarla. Invece anche la poesia è fatica, richiede fatica. Al poeta e al lettore. Chiudo con un bellissimo aforisma di Robert Schumann, che cito spesso, ma che coglie perfettamente l’abisso tra chi conosce la complessità della poesia e chi vorrebbe immediatamente gustarla, come un bicchiere di Coca Cola, un gelato, un giocattolo usa e getta. “Mi piace, non mi piace, dice la gente. Come se non ci fosse niente di più importante da fare al mondo che piacere alla gente”. Ha ragione Schumann. Attenti! Ascoltate, infatti, Rimbaud: la poesia non apre necessariamente un paradiso, può invece essere più spesso un viaggio all’inferno:

ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’Universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.

Ancora Dante. Lo chiama in causa anche Serena Vitale, che pone a intestazione del prezioso volumetto le seguenti terzine del Paradiso:

Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume
ciò che per l’universo si squaderna;
sustanze e accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dicoè un semplice lume.

Mi commenti questi versi chi non sa niente della Metafisica di Aristotele e della riflessione teologica di San Tommaso! C’è anzi, perfino un pizzico di Duns Scoto!

Di nuovo mi soccorre Dante:

Fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e conoscenza.

Versi che Primo Levi cita in Se questo è un uomo a illuminare l’orrore di Auschwitz. Non servono commenti.

Fiano Romano, 16 luglio 2017

1Titolo di una raccolta di saggi.

mercoledì 12 luglio 2017

Breve riflessione sulla scienza

Una breve riflessione su ciò che possiamo e dobbiamo chiedere alla scienza, per vincere la paura che troppi dimostrano di nutrire nei suoi confronti


Un amico, Lucio Malandra, si chiede da che cosa nasca questa rivolta antiscientifica, questo movimento che vede anche nella scienza un complotto ai danni della gente, e opporvisi lo interpreta come una contestazione del sistema attuale di poteri - politici, economici, sociali - che governano il mondo. Un altro amico, Adriano Lepri, cerca una risposta e avanza l’ipotesi, suggeritagli da Jung, che la perdita dei significati simbolici nella lettura del reale possa esserne la causa. Pasolini avrebbe parlato di perdita del senso sacrale della vita e del mondo, in una parola di perdita del sacro. Scomparse religioni e ideologie, subentrerebbero le illusioni di risposte immediate, semplici, a fenomeni che non si capiscono e, soprattutto, non si controllano. Poiché sono, queste, riflessioni che spesso hanno attravesato anche la mia mente, cerco di raccogliere le briciole di quanto ho elaborato tra me e me in proposito. Eccone un breve resoconto.


Quanto scrive Adriano Lepri, la perdita di fiducia nei simboli, già additata da Jung, è solo una parte, credo, della possibile spiegazione. Jung va preso con le molle. La sua idea di archetipo culturale è affascinante, ma non del tutto convincente. Non è questo, tuttavia, lo spazio per dibattere problemi così complessi. Butto perciò là un'ipotesi, solo un’ipotesi, di spiegazione, che sarà certo parziale, e non esaustiva. Parto da lontano, perché da lontano il problema si è posto alla riflessione degli uomini. Ciò che la scienza da sempre propone, infatti, è la messa al bando delle certezze, di ogni tipo di certezza, scientifica, politica, morale, per inseguire con fatica una ricerca di spiegazioni comprensibili del reale – inseguire, si badi, la ricerca di spiegazioni, non le spiegazioni. Tra Ottocento e Novecento, la “fede" positivistica nel progresso scientifico aveva assai poco di scientifico, assomigliava di un più a una religione senza dio, non direi laica, e già nel primo Ottocento Leopardi ironizzava su questa fiducia incondizionata. L’atteggiamento scientifico è un’altra cosa e lo riscontriamo già nei presocratici, vedi la negazione degli dei e la ricerca di un principio naturale, anzi materiale, delle cose. Platone ha poi cercato d'individuare lo spazio concettuale di ciò che materiale non sembra, ma guarda caso lo cerca nella matematica. Aristotele capisce che questa ricerca deve far capire come la semplicità dei concetti astratti possa spiegare la complessità del reale, e intravede due vie, una concettuale, e l'altra sperimentale - il medio evo non capì questa doppia apertura – scoprì, tra l’altro, il sistema sanguigno delle mosche, il suo allievo e genero Teofrasto ci dà la prima classificazione delle piante, quella degli animali l'aveva già schizzata Aristotele, vertebrati e invertebrati, capì che balene e delfini non sono pesci ma mammiferi, ecc. ecc., anche la teoria dei temperamenti ha radici sperimentali, e il Problema XXX sulla malinconia anticipa intuizioni della moderna neurobiologia. Il resto è la storia che ancora viviamo. Aristotele dovette scappare da Atene, accusato, come Socrate, di empietà. Ipazia, sette secoli dopo, fu sbranata e scuoiata viva dai cristiani, perché sosteneva, tra l’altro, che gli antipodi sono abitati e la gente non vi cammina a testa ingiù. Quali le loro colpe, per gli ateniesi del IV secolo a. C. e gli alessandrini del IV/V secolo d. C.? cercare una spiegazione comprensibile e non mitica, del reale. Credo che questo sia il punto. Non tanto la gratificazione dei simboli, quanto il rifiuto dell'incertezza. La scienza non dà certezze, ma solo metodi di ricerca. E la gente vuole invece certezze, sì e no, bianco e nero. Il medico ti dice che il tuo cancro, per ora, non si può curare, tutt'al più si può arrestare. Arriva uno e ti dice che ha trovato il filtro per curarlo. La gente che fa? Crede al ciarlatano, perché lo libera dall'incertezza di una soluzione della malattia e gli dà la certezza di una guarigione, dunque lo libera dalla certezza spaventosa della morte. La gente non solo vuole certezze, ma certezze consolanti. Le certezze d’insuccesso, di morte, di malattia sono rimosse, evitate, rifiutate. L'incertezza della guarigione fa inoltre più paura della certezza della morte. Gli esempi possono continuare. Accade anche nelle discipline umanistiche: anche qui una resistenza ai metodi di ricerca critica, è talmente bello rifugiarsi nel sentimento della poesia! Che importa se “Tanto gentile e tanto onesta pare” non significa oggi quello che significava per Dante, e chi se ne frega? a me mi emoziona così come la capisco. E’ questa la risposta, compreso il rafforzativo a me mi, per ribadire qual è il vero interesse. E così via. Probabilmente tutto ciò fa parte della psicologia di massa, ma in Italia Croce e Gentile vi hanno aggiunto un carico da undici: parte da loro, infatti, la svalutazione del lavoro scientifico, in tutti i campi. ne paghiamo ancora le conseguenze. Per esempio con un insegnamento vecchio, accademico, in cui la scienza ha una parte risicata. Aristotele faceva esercitare i suoi allievi nel disegno e nell'apprendimento della musica e li obbligava a imparare i fondamenti della matematica. Poi, quando diventavano cittadini, a 16 anni, impartiva loro i fondamenti della logica e dell'analisi del linguaggio. Strano, ma questo sistema è rimasto alla base delle scuole francesi, inglesi e tedesche. Che poi hanno altri limiti e sono anch'esse in crisi. Cavour aveva immaginato per l'Italia una scuola di orientamento soprattutto tecnico e scientifico, come in Inghilterra. Ma poi ha prevalso l'orientamento umanistico di De Sanctis. Ed eccoci qua! Scusatemi la lunga digressione. Ma è quasi niente rispetto a ciò che si potrebbe dire. Per esempio: le conseguenze politiche di questo rifiuto dell'incertezza. Un tempo sia la DC sia il PCI non si mascheravano la complessità dei problemi e formavano i propri politici in scuole apposite per affrontarla, spiegarla ai cittadini. Oggi anche i partiti preferiscono le semplificazioni facili e illusorie. Ed eccoci qua! ;a la scienza propone certezze, dice qualcuno. Come i guaritori. No, la scienza non cerca affatto la certezza. Chi se n'è illuso non era uno scienziato. Problemi suoi. La scienza è ricerca di una spiegazione comprensibile del reale, confortata dalla sperimentazione, ma ogni scienza è sempre disponibile a rivedere le spiegazioni acquisite (preferisco usare il termine spiegazione a certezza). Wittgenstein, che era insieme filosofo e matematico, lo riassume bene nell'aforisma: ogni spiegazione è un'ipotesi. Pensiamo alle discussioni sui quanti, sulla teoria delle stringhe, sulle probabili (probabili) infezioni contratte tra specie diverse (spillover, travasi), oggi sappiamo che certi virus ci sono trasmessi da certi pipistrelli, la malaria dalle zanzare, ma di altre malattie cerchiamo ancora l'origine. Questa è la scienza, sempre disponibile a rivedere e se nel caso a smentire le spiegazioni acquisite. E' questo che io chiamo l’incertezza della scienza, il rifiuto della verità definitiva, della certezza di un risultato ultimo. Ma questo fa paura alla gente. E come, non posso saperlo? e come faccio, se non lo so? No, non lo sai - per esempio, perché sulla terra si è manifestata la vita e con la vita anche i virus, mica sono venuti degli extraterresti a portarceli, e chi li ha visti? - con questa ignoranza devi convivere, devi fartene una ragione, ti piaccia o no. A molti non piace, e non riuscendo a procurarsi vere certezze, cercano allora surrogati di certezze. E qui il discorso contemporaneo si apre sulla incapacità, da parte di chi sa, di dare risposte a chi le chiede. Bisognerà dire a tutti chiaramente: non abbiamo risposte. Dovete imparare a vivere con problemi che non hanno risposte, che ancora non si sono trovate, poi chi sa! Questo dovrebbe essere insegnato fin dall'asilo nido, invece di dare per il momento risposte provvisorie ai bambini, un contentino su due piedi solo per farli stare buoni. Già i bambini devono invece sapere che non a tutto c'è una risposta. Chiudo con una citazione letteraria. Nella sua ultima, bellissima, tragedia, l'Edipo a Colono, Sofocle ci fa assistere a un dialogo intenso, stupendo tra Edipo e Teseo. Teseo chiede a Edipo se sapesse di commettere i mali che ha commesso. Edipo risponde che non lo sapeva. Sono innocente del male che ho fatto, dice. Ma chiedo: perché io? Teseo non risponde, si ode il canto delle Eumenidi nel boschetto, Edipo ci va a incontrare la propria morte, seguito da Teseo, a cui però chiede di non rivelare ciò che vedrà. La tragedia finisce così: resta la domanda di Edipo: perché io? Sofocle pone la domanda, ma come tutti i grandi drammaturghi non risponde, perché la risposta non la sa. Il mito la chiama destino. Ma il destino non è una risposta, non è una spiegazione, è una certezza provvisoria. Ed Edipo non vuole certezze provvisorie, vuole la risposta definitiva, ultima: perché io? Sofocle lo abbandona, solo, con quella domanda che non ha risposta. Ecco, questo è un atteggiamento non solo correttamente drammaturgico, ma che uno sta alla base del rapporto razionale con il mondo, e due alla base anche della scienza. E' questo non avere risposte, non averne nessuna che risponda a tutte le domande, ciò che disturba la gente. Ripeto, bisognerebbe cominciare da bambini, e dire ai bambini, quando fanno domande terribili, a cui non sappiamo rispondere, che appunto non sappiamo, non possiamo rispondere, che non abbiamo le risposte. Ma i più, ne hanno paura. Preferiscono inventare qualsia risposta, qualsiasi fantasia. Ma il bambino ci crede. E dopo sarà difficile sradicare dalla sua mente la cognizione falsa, la risposta che non risponde, perché dice tutto e non dice niente, perché propone una soluzione immaginaria, inesistente, a un problema reale. E questa paura, invece, dobbiamo sradicarla. Come dobbiamo sradicare la risposta provvisoria, sbagliata, che illude, ma non spiega. Dobbiamo sradicarla, perché in questa paura si annidano i germi di molti comportamenti sbagliati dell’uomo, violenti, aggressivi, criminali: si annidano le radici del razzismo, dell'intolleranza, dell'incapacità di affrontare la complessità del mondo, di riconoscere la problematicità irrisolvibile del reale.

Fiano Romano, 12 luglio 2017