lunedì 3 aprile 2017

Tarde para la ira, film di Luis Arévalo

Tarde para la ira è un film bellissimo, e terribile, in italiano: La vendetta di un uomo tranquillo, titolo sbagliatissimo , che oltretutto toglie senso alla sorpresa della vendetta, che esplode solo nella seconda parte del film. Il titolo originario spagnolo è secco, spietato, concreto: Tarde para la ira, tardi per la rabbia. Ma storpiare i titoli originali sembra una costante della distribuzione italiana. Valga per tutti il bellissimo Domicile conjugal di Truffaut trasformato in Non drammatizziamo, è solo una questione di corna. Non perdiamo un’occasione per confermarci cialtroni e volgari o, piuttosto, le case distributrici italiane sembrano avere un’opinione assai mediocre del pubblico italiano. Si è scritto e parlato molto, spesso a sproposito, sul film di Luis Arévalo, 36 anni. Si è citato Tarantino, certa filmografia latinoamericana. Si è tirato in ballo anche il gusto splatter, che qui non c’è .Il film è, invece, tipicamente spagnolo, sobrio, duro, come da secoli certa tradizione drammaturgica spagnola: A secreto agravio secreta venganza (a segreta offesa segreta vendetta, Calderón de la Barca), El condenado por desconfiado (Il condannato per mancanza di fede, Tirso de Molina, di cui si può ricordare anche El burlador de Sevilla, L’ingannatore di Siviglia, dramma che fonda il mito di Don Giovanni). La violenza, la morte, sono insieme frutto del caso e della volontà interiore, o piuttosto dell’impulso irrefrenato e irrefrenabile del personaggio. Niente a che vedere con la violenza di una banda criminale, anche se il film comincia proprio mostrando la ferocia di una banda che assale una gioielleria. Ma non è Gomorra, né il film né la serie televisiva . Non è Pulp Fiction. Se mai può ricordare, ma molto alla lontana, l’argentino Plata quemada (denaro bruciato), di Marcelo Piñeyro, dallo straordinario romanzo di Ricardo Piglia. Il titolo del film di Arévalo, Tarde para la ira, spiega il senso della violenza: non serve a niente, è sempre “tardi” per sfogare la propria rabbia. Il dolore provato per l’assassinio della propria donna e del proprio padre da parte dei rapinatori non è calmato, ripagato dal dolore di altri. La morte non è una medicina della sofferenza, ma se mai sale sulle ferite. Ci sarebbe molto da dire su come è girato il film: tutti primi piani, efficacissimi, intensissimi, splendido l’incidente iniziale filmato dall’interno dell’automobile, o la scena in cui il vendicatore fissa la donna, nella discoteca, ed è fissato da lei. Se la porta a letto. E’ la moglie del palo della banda e sorella dell’assassino. Le vite s’intrecciano e si accartocciano, incomunicanti, solo travolte insieme dalla durezza del vivere. E vivere per la morte. Gli attori, Antonio de la Torre, Luis Callejo (il palo, stupendo), Ruth Diaz, Alicia Rubio, Manolo Solo, uno più bravo dell’altro. Il finale è di una desolazione senza speranza. Il vendicatore ha ammazzato tre uomini. Ma non ha trovato la pace. E ha provocato altra sofferenza. Il merito maggiore del film sta proprio in questa sua secchezza, nei dialoghi scarni, nell’uso drammaturgico dei primi piani, intere scene del film non hanno dialoghi. Funzionale a questa drammaturgia della nudità narrativa è la colonna sonora, secca e brutale, come il film. Spesso solo rumori di strada, di una palestra, di un bar. E la percussione che martella nei momenti che precedono l’esplosione della violenza. Si pensa a Manuel de Falla. Ma qui è qualcosa di più duro, di più spietato, e, soprattutto, di più sobrio. Il cinema italiano , che questa sobrietà la conosceva bene decenni fa, e oggi sembra averla dimenticata, avrebbe molto da imparare da film come questo.

Fiano Romano, 3 marzo 2017