giovedì 16 febbraio 2017

Roma, Santa Cecilia, Il Paradiso e la Peri di Schumann diretto da Daniele Gatti. Riflessioni.



ROMA. AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA. SALA SANTA CECILIA. ACCADEMIA NAZIONALE DI SANTA CECILIA. STAGIONE SINFONICA. ROBERT SCHUMANN, IL PARADISO E LA PERI,

Direttore                                                                     Daniele Gatti

Peri                                                                                Angel Blue
Fanciulla, e soprano (Quartetto)                       Regula Mühlemann
L’Angelo, e contralto (Solo)                                 Jennifer Johnston
Contralto (Quartetto)                                            Martina Mikelić
Tenore (Solo)                                                            Brenden Tunnel
Giovinetto, e tenore                                              Patrick Grahl
Ganza, L’uomo, e baritono (Quartetto)          Georg Zeppenfeld
Soprani                                                                         Maria Chiara Chinoni, Patrizia Riberti
Contralti                                                                       Francesca Calò, Tiziana Pizzi

Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Maestro del Coro                                                     Ciro Visco

Esecuzioni: 9, 10, 11 febbraio 2017

“La mia vita è legata a questo lavoro”, dichiarò Schumann, a proposito del Paradiso e la Peri. Basta, del resto, ascoltare l’attacco, delicatissimo, che sembra l’inizio di un quartetto per archi, per intendere il senso intimo di questa confessione. La curva della melodia su sé stessa, come un ripiegamento della coscienza, ricorda sia l’Adagio espressivo della Seconda Sinfonia sia il Langsam, lento, del Concerto per violino. Verdi deve esserne ricordato per il Preludio dell’Aida (contrariamente a ciò che generalmente si pensa - e si scrive! - Verdi era attentissimo e assiduo lettore della musica strumentale tedesca). Affine, sia nella sinfonia sia nel Concerto, è l’intonazione dolente, il senso di un lamento inconsolabile. Il Poema, Dichtung, come chiama Schumann Das Paradies und die Peri, e non Oratorio, o Cantata, come il genere avrebbe fatto supporre, comincia con l’evocazione delle lacrime della Peri che ambisce alla redenzione dalla colpa di creatura esclusa dalla salvezza per entrare nel Paradiso e finisce con le lacrime di pentimento del Peccatore. L’andamento melodico è anche simile all’attacco del ciclo liederistico Dichterliebe. E’ una melodia tipicamente schumanniana, che sembra mancare di baricentro, sospendersi a una cadenza armonica che non arriva o arriva in maniera assai leggera. Schumann immagina le sue melodie come respiri vocali – anche quando scrive per pianoforte! – s’innalzano e si perdono o svaniscono nelle zone acute della voce o dello strumento oppure cadono e si smarriscono nelle zone gravi, sembrano evitare la chiusura di una cadenza o quando arriva, essa è attuata leggermente, in genere con lo scivolare sulla tonica attraverso un’appoggiatura. Le trombe che annunciano la redenzione della Peri sono fiochi tocchi di esultanza che assomigliano di più a un lamento per la fine di qualcosa. Probabile che Schumann si rispecchiasse in questo bisogno di salvezza, sentito come un’uscita dalla solitudine, più che come il perdono di una colpa. O se di colpa si tratta, è la colpa della propria singolarità, dell’irripetibile e irriproducibile isolamento dell’artista, del dolore di quest’angoscia di sentirsi, essere diverso da tutto il resto del mondo. Da quest’angoscia sgorgano lacrime irredimibili. Le lacrime! Nel ciclo Frauenliebe und –leben, Schumann vi dedica un intero Lied. Goethe, in una poesia tarda, afferma che dalle lacrime “rinverdisce” la vita. E dunque un uomo non dovrebbe vergognarsi di piangere, perché le lacrime non sono segno di debolezza, ma di profondo senso della vita. Nella musica di Schumann s’intravedono, in trasparenza, le riflessioni di Kirkegaard, suo contemporaneo, e come lui luterano problematico, sulla “malattia mortale”, l’angoscia, la disperazione.
 Ma chi è la Peri? Le culture del mai pacificato Medio Oriente, dall’Eufrate al Mediterraneo, sono un miscuglio di religioni, miti, leggende, filosofie.  La civiltà umana è nata, se si bada, sulle rive di alcuni fiumi, ancora centrali nella storia del mondo: il Tigri e l’Eufrate in Mesopotamia, il Nilo in Egitto, l’Indo in India, e poi il Gange, il Fiume Giallo in Cina. Si va indietro di molti millenni, almeno dodici. Naturale che poi le culture di queste regioni assimilino questo miscuglio nel volgere dei millenni e dei secoli. C’è da farsi anzi venire le vertigini. Soprattutto quando poi oggi si ascoltano le notizie terribili che ci arrivano da quelle parti della Terra. Qualche anno fa ho visitato l’isola greca di Limnos, l’antica Lemno. Sì, Lemno, quella dove gli Achei, secondo il mito, dietro consiglio di Odisseo, Ulisse, depositarono dormiente e abbandonarono Filottete, perché non riuscivano a sopportare il lezzo della sua ferita. Sofocle ci costruisce su una mirabile tragedia, forse la sua più bella, sicuramente la più enigmatica. Etica aristocratica ed etica democratica si scontrano.  Filottete, contro le ragioni degli Achei, sostenute da Odisseo, difende la propria libertà individuale di eroe solitario offeso e colpito da chi ora manovra le masse. Odisseo gli contrappone il diritto di tutti alla propria sicurezza, e dunque a liberarsi degli ostacoli che possano minacciarla. Sembra un dibattito di oggi. Sofocle non dà risposte: sa che le ragioni dell’etica e quelle della politica spesso non coincidono, vi dedicherà un’altra tragedia, la sua ultima, l’Edipo a Colono. Filottete, però, si vedrà costretto a seguirlo, ma solo perché, a dirimere il conflitto, interviene una divinità, Eracle. In mezzo, testimone e insieme cavia del nuovo ordine politico, Neottolemo, figlio di Achille. Il giovane ammira la morale aristocratica dell’eroe, di Filottete, ma si lascia alla fine convincere dal realismo di Odisseo, che parla per tutti: la sopravvivenza degli Achei è prioritaria rispetto alla pur nobile coscienza offesa dell’aristocratico Filottete. Ebbene, sull’isola di Limnos c’è il sito archeologico dell’antica città di Poliochni, ch’è la prima, più antica, città organizzata su suolo europeo. Anteriore a Troia. Guardando le rovine, e guardando il mare che si protende verso le coste dell’Anatolia, si è colti dalla vertigine della storia. Su quelle terre d’Oriente - questo significa Anatolia – sono passati Ittiti, Assiri, Babilonesi, Persiani, Greci, Romani, Arabi e Turchi. Nell’immenso altopiano iranico sorse Zoroastro. E un démone di Arimane è il Peri, nel mito iranico figura maschile. Dunque un “genio” del male. Ma poi arriva l’Islam, che, nella credenza popolare, associa il démone al genio, allo Jinn (ricordate Aladino e il genio della lampada, nelle Mille e una notte?), anzi fa del Peri iranico una creatura femminile, e lo identifica all’angelo caduto, ma pentito della sua ribellione e che ora aspira a essere redento e riaccolto nel Paradiso. Un poeta irlandese, Thomas Moore, inserisce questo mito o piuttosto questa leggenda in un lungo romanzo, Lalla Rookh, in persiano Lala-Rukh, del 1817, come uno dei quattro poemi cantati da un poeta iraniano, di cui la protagonista del romanzo cade innamorata. Schumann se ne entusiasmò, e nacque così Il Paradiso e la Peri. Nelle tre prove per accedere al cielo la Peri fallisce nelle prime due, la goccia di sangue dell’eroe che muore per la libertà,  il bacio mortale di due innamorati, e si redime con la terza, le lacrime di pentimento del grande peccatore. Composto, nel giro di pochi mesi nel 1843, per “persone serene”, come scrive. Ma, come sempre, la serenità, per Schumann, non è un dono, bensì, come la gioia per Beethoven, il risultato di una ricerca, la conquista di un lungo e faticoso cammino di formazione. Si rifiuta, perciò, di chiamarlo oratorio, afferma che non si tratta di preghiera, di azione sacra, ma di un “genere nuovo per le sale da concerto”. E’ un teatro mentale, dunque, come il madrigale drammatico del tardo Rinascimento. Teatro della mente, dice esplicitamente Orazio Vecchi, nell’Amfiparnaso: «Si mira con la mente, / dov'entra per l'orecchie e non per gl'occhi”, scrive nel prologo Giulio Cesare Croce, l’autore del testo. In questa disposizione d’animo deve porsi anche chi ascolta Il Paradiso e la Peri. Ma in qualche modo tutto il teatro, o tutta la musica drammatica, di Schumann è concepita come una sorta di teatro ideale, in cui il movimento delle passioni conta più dell’azione vera e propria. Anche il Manfred, le Scene dal Faust, Il pellegrinaggio della rosa, e perfino la stessa Genoveva, che è un vero e proprio melodramma, vanno intesi in questo senso, nel senso di un “genere nuovo”.  Che è, insieme, un modo molto emotivo e molto intellettuale di concepire il teatro. La concezione è profondamente radicata nella tradizione del teatro tedesco, fin dal teatro barocco studiato e meravigliosamente spiegato da Walter Benjamin. Lessing e Goethe, e poi i fratelli Schlegel, non fanno che confermare questa concezione.  Goethe, addirittura, la spiega nel Prologo in teatro del Faust, e nelle pagine dedicate all’Amleto nel Wilhelm Meister. Wagner non fa eccezione, e anzi in Tannhäuser e Lohengrin si sente più di un influsso della musica drammatica di Schumann. Taluni passi del Paradiso e la Peri, anzi, fanno già pensare a passi analoghi dell’Anello del Nibelungo.  Il pensiero, l’idea, e l’emozione che ne scaturiscono, sono, in questa concezione del teatro, il vero soggetto dell’azione. Il secondo atto del Tristano può così riuscire statico e noioso solo a chi non coglie che nella musica si scatena un intero universo di concezioni della vita, e una profonda filosofia del mondo,  sentimenti di disperazione e d’inesistenza sono il vero soggetto dell’azione. Ma era già così nel Fidelio di Beethoven, il grande modello che percorre e pervade tutto il teatro tedesco fino al Wozzeck di Berg. E forse fino a Licht di Stockhausen.
 Naturale forma musicale di questo pensiero, e di queste emozioni, è per Schumann la canzone, il Lied, che dopo Schubert ha assimilato nella sua forma, come elemento indispensabile, anche il recitativo, che tende il più delle volte a espandersi in arioso. La musica dell’azione sembra così svolgersi come un flusso ininterrotto di idee musicali che s’intrecciano tra loro come le frasi esplicative di un ragionamento, le diverse e mutevoli sezioni di un pensiero. Tra musica e letteratura s’instaura un connubio in cui è difficile distinguere che cosa sia l’una e che cosa l’altra, o piuttosto la musica s’impossessa delle strategie retoriche della letteratura. Non è la prima volta che ciò accade. Il melodramma, anzi, nasce proprio con questo intento. E più tardi perfino un compositore così severo, astratto – apparentemente – come Bach, si appella all’arte oratoria, alla distribuzione delle parti di un discorso per chiarire i suoi procedimenti formali: se un passo contrappuntistico sarà l’argomentazione, un passo libero,  essenzialmente monodico, ne sarà la confutazione. In Schumann questo parlare delle strutture musicali si fa fondamento della forma, della costruzione della forma, mai data all’inizio una volta per tutte, ma sempre in movimento, sempre un divenire la cui conclusione spiega, all’indietro, tutto il percorso. E’ l’elaborazione estrema a cui giunge la costruzione della forma sonata. Se n’era avuto un primo formidabile esempio nel finale dl secondo atto delle Nozze di Figaro di Mozart, non a caso additato da Wagner come esempio già di dramma musicale, nel senso che il dramma sta già tutto nello sviluppo musicale. Nessuno, dunque, più di Daniele Gatti, poteva penetrare la novità di una simile invenzione musicale quale quella che Schumann realizza nel Paradiso e la Peri. Reduce dall’esperienza di Bayreuth, e inoltre dal molto Wagner – e Berg – affrontato negli ultimi anni, questo Schumann sembra riscoperto. A Santa Cecilia Il Paradiso e la Peri è stato preceduto dall’esperienza entusiasmante delle sinfonie: gli anni sono più o meno quelli. E tanto l’interpretazione delle sinfonie quanto  il “nuovo genere” di teatro musicale da concerto hanno dimostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, che Schumann sapeva scrivere per orchestra, e molto bene. Ripeto: basterebbe l’attacco quartettistico di questo oratorio che non è oratorio, come l’orchestra non è un’orchestra “romantica” come il pubblico se l’aspetterebbe, bensì un’orchestra che sa assumersi le disposizione di un complesso da camera. Wagner ne saprà trarre la lezione giusta, soprattutto nel Tristano. Elemento ineliminabile di questa costruzione è la scrittura perennemente contrappuntistica. Sotto la direzione di Gatti la trasparenza di questa scrittura esce sublimata. Splendidi tutti gli interpreti,  la Peri di Angel Blue, l’Angelo di Jennifer Johnston, la Fanciulla di Regula Mühlemann,  il contralto Martina Mikelić, Georg Zeppenfeld terrifico Grazna e sublime Baritono nel Finale, Patrick Grahl, delicato Giovinetto, il tenore Brenden Gunnell. Ottime le quattro voci soliste del Coro: Maria Chiara Chizzoni e Patrizia Roberti, soprani; Francesca Calò e Tiziana Pizzi, contralti. Luminosa la prestazione dell’Orchestra e del Coro dell’Accademia di Santa Cecilia, splendidamente preparato da Ciro Visco. Successo trionfale per tutti, com’era giusto. Aspettiamo, ora, le altre musiche drammatiche di Schumann. Le scene dal Faust, Il pellegrinaggio della Rosa, il Manfred. E anche il Requiem per Mignon, che è, anch’esso, una sorta di teatro sublimato.

Fiano Romano, 16 febbraio 2017


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