domenica 20 novembre 2016

La lingua degli esclusi: un romanzo di Gualberto Alvino



Gualberto Alvino, Pelle di tamburo
Perché non parlare anche di un pdf? A volte, per aspettare un editore, si aspetta invano. E non è detto che ciò che si può vedere in una vetrina di libraio sia sempre migliore di ciò che aspetta di fare mostra di sé stesso là dentro. Vero, anche, che gli inediti, spesso, meritano di restare tali. Ma vero, d’altra parte, anche, che troppi editi non meritavano di diventarlo. E questo Pelle di tamburo di Gualberto Alvino?
Mi chiedo quanti libri siano stati scritti sui diseredati della terra. Ma soprattutto: quanti scritti per raccontare la testa dei diseredati, la loro vita, diciamo così, interiore, ammesso che sia possibile distinguere un interno e un esterno della vita. Nella nostra letteratura spiccano due titoli: I Malavoglia e I Promessi Sposi. Qualcuno mi obietterà: e Ragazzi di Vita? Una Vita Violenta? o La Storia? Forse, perché no? Il gioco delle inclusioni e delle esclusioni è un gioco perennemente giocato e rigiocato ma in fondo inutile. Perché non si tratta d’includere o di escludere, bensì di fornire esempi. Con la distanza della prospettiva di lettura, oggi, questi ultimi, Pasolini e Morante, appaiono più un esercizio da parte dello scrittore, che un tentativo di pensare con la testa del diseredato. Ci sarebbe Gadda: l’unico, dopo Verga, che abbia inventato una scrittura polifonica del racconto, quasi un madrigale drammatico senza musica che non sia quella delle parole. Ma all’obiezione a mia volta obietto che in ogni caso Gadda non entra nella testa del diseredato, o se di diseredato si tratta, è la borghesia, anzi la piccola borghesia, diseredata del suo ruolo di interprete della realtà sociale del proprio paese, anzi della realtà, e basta. In tal senso il capolavoro non è il Pasticciaccio, ma la Cognizione del Dolore. Preparata dal miracolo dell’Adalgisa. Gualberto Alvino si colloca su un’altra visuale. Nella confusione attuale dei ruoli sociali, sceglie un emarginato, anzi un’emarginata vera, totale. Una “malata di mente”, dopo la chiusura dei manicomi. Le toglie anche la specificazione di un nome, è una vocale, e minuscola: e. E decide di non scrivere la storia in una lingua impersonale, come Verga, o Pasolini, per quanto Pasolini possa rientrare in questo schema di racconto del diseredato. La mia idea, infatti, è che Pasolini non racconta il diseredato – nemmeno al cinema, nemmeno in Accattone, il suo primo film, e il più bello -  ma racconta il proprio disagio di fronte all’esistenza dei diseredati, e la propria impotenza a raccontare non i diseredati, ma il proprio disagio nel raccontare i diseredati. Alvino compie, invece, il passo che Verga si rifiuta di compiere: facile raccontare la vita degli esclusi, dei vinti, con la lingua degl’inseriti, dei vincitori, ma con quale lingua ‘Ntoni e gli altri avrebbero raccontato la propria vita, loro che una lingua non ce l’hanno? o piuttosto: ce l’hanno, ma la capiscono solo loro, è una lingua autoreferienziale, come tutte le lingue di tutti gli esclusi. Verga sperimenta di scandire la lingua degli italiani, dopo Manzoni, con la sintassi e la logica della lingua dei diseredati. Ma resta, comunque, la lingua dei vincitori, non dei vinti. Questa lingua dei vinti, ci prova a farla riemerge Luchino Visconti nella Terra Trema. Ma ha bisogno poi dei sottotitoli perché il pubblico, che parla la lingua dei vincitori, capisca. Resta comunque il film più bello di tutto il neorealismo italiano, il più veramente neorealista, più perfino di Ladri di biciclette, perché non prende alla lettera il racconto, ma adotta come proprio stile lo stile del racconto. Il neorealismo, insomma, nella macchina da presa di Visconti, non è uno strumento per raccontare la realtà, ma lo stile per conoscerla. Mi spiego. Con un esempio altissimo. Quando Dante incontra Francesca, non è la storia d’amore a commuoverlo (anche!), ma è la concezione ideologica di una amore che salva raccontata da una dannata a sconvolgerlo, a toglierli, alla lettera, la terra sotto i piedi. Francesca si rivolge a lui con il linguaggio del Dolce Stil Novo, “Amor che a cor gentil ratto s’apprende”, ma non è la beatitudine salvifica di Beatrice, è la passione che sprofonda nella “bufera infernal che mai non resta”. E Dante perde i sensi: già, i sensi, quelli che assecondano la passione. Il racconto di Francesca ha funzionato da catarsi. L’amore salva, ma un altro amore, non quello.  Lo capirà alla fine del viaggio, quando incontrerà “l’amor che muove il sole e l’altre stelle”. Questa digressione dantesca per capire una legge fondamentale di qualsiasi racconto: il racconto risulta efficace solo se trova lo stile giusto del raccontare, e raccontare quell’unico racconto, non qualsiasi racconto. Ovvio che lo scrittore debba già avere una storia da raccontare. Ma dal momento che ha trovato la storia, non conta più la storia, bensì il modo di raccontarla. Altrimenti la storia non troverà nessun racconto, resterà materia bruta, ancora da raccontare. Mi direte: ma allora, anche uno scrittore che non ha niente da dire, può raccontare una storia, perché inventa un modo di raccontarla. Eh no! chi non ha niente da raccontare, racconta il niente, quand’anche trovasse, ma ne dubito, uno stile. A meno che non racconti appunto questo suo niente: lo ha fatto, in maniera splendida, Pirandello, nei Sei Personaggi in Cerca d’Autore.  O Unamuno in Niebla, Nebbia. Ma torniamo al romanzo di Alvino.  Le avventure picaresche della “malata di mente”, tra stupri, furti, furbate per beccarsi un tozzo di pane, o per sfuggire alla polizia, intrigano il lettore, che non sempre capisce i confini tra ciò che si racconta e la verità dei fatti. Ma che conta? E’ un mondo senza logica guardato con la logica di chi ha capito che il mondo a non possedere una logica. Grammatica e sintassi inseguono così questa logica sotterranea che cerca di raccontare un mondo senza senso. E una volta dentro, ci si perde. L’unica a non perdersi è proprio la raccontatrice, che “mette in fila le cose”. Ma quali file in un mondo senza file, senza un ordine, senza un senso, che non siano le file del raccontare? L’episodio nodale potrebbe essere quello dell’autobus (“Ancora pietà”) in cui un gruppo di bulletti prende in giro due “checchemerdose”, e la raccontatrice li mette in riga, li fa scappare.  Ma poi presenta “il dito medio a quell’achille dell’autista”. “Sempre sulla pietà. / Per dire”.   Il gioco linguistico rivela  alla fine ciò che rivela ogni gioco linguistico quando a giocare è uno scrittore vero: una visione disperata della vita, un’assoluta consapevolezza dell’inconoscibilità del reale, al di fuori del tentativo di raccontarlo. Il reale può allora anche apparire sfuggente. Ciò che non sfugge è questa inossidabile coscienza  dello scrittore, che sa che l’unico modo che si abbia per non lasciarselo sfuggire è raccontarlo.
Fiano Romano, 20 novembre 2016

5 commenti:

  1. Si, la tua recensione mi induce la curiosità di leggere il libro, soprattutto per sciogliere il nodo della maniera di raccontare in rapporto alla storia raccontata e l'uso della lingua appropriata. Mi coinvolgono molto le tue analisi piene di riferimenti e confronti e le trovo sorprendentemente illuminanti. Grazie.
    Fiorella Santoncini

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  2. Grazie. Peccato che il romanzo non sia ancora pubblicato. Ma magari potrei metterti in contatto con l'autore.

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  3. Mi sembrava di aver capito che ne esistesse una versione in Pdf e quindi accessibile su Internet. Io sono un po' timida con i contatti nuovi, ma se tu pensi che possa servire ad ottenere informazioni utili alla lettura del libro, accetto volentieri. Ti ringrazio moltissimo della tua gentilezza, ma soprattutto del tuo magistero che è come una lanterna rassicurante in mezzo a lampi di luci psichedeliche frastornanti. Buona serata.

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    1. Puoi contattare lui stesso, su Facebook. Sono sicuro che te ne manderà una copia.

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  4. Ti ringrazio. Mi ha contattata lui stesso. Gli parlerò più ampiamente domani. Buona notte.

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