lunedì 21 novembre 2016

Filippo Perocco, Aquagranda



VENEZIA. TEATRO LA FENICE. AQUAGRANDA di Filippo Perocco. Libretto di Luigi Cerantola su un soggetto di Roberto Bianchin. Inaugurazione della stagione d’opera e balletto 2016-2017.

Fortunato                                           Andrea Mastroni
Ernesto                                               Mirko Guadagnini
Lilli                                                         Giulia Bolcato
Leda                                                     Silvia Regazzo
Nane                                                    Vincenzo Nizzardo
Luciano                                                William Corrò
Cester, maresciallo                         Marcello Nardis

Direttore                                            Marco Angius
Regia                                                    Damiano Michieletto
Scene                                                   Paolo Fantin
Costumi                                              Carla Teti
Regia del suono                               Davide Tiso
Video                                                   Carmen Zimmermann
                                                               Roland Horvath
Coreografie                                       Chiara Vecchi

Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del Coro                            Claudio Marino Moretti

Prima rappresentazione: 4 novembre 2016
Repliche: 5, 6, 8, 9, 10, 11, 12, 13 novembre 2016

Opera inaugurale della stagione 2016-2017

Lo spazio che la stampa periodica - quotidiana, settimanale o mensile che sia - dedica oggi in Italia alla cultura, e in particolare al teatro, e più specificatamente al teatro musicale contemporaneo, chiamarlo esiguo è un eufemismo. Perciò cerco da parte mia di rivalermi, e di ricuperare quello spazio negato, in queste pagine digitali di un blog, che non so se poi tocchi qualcuno più dei venticinque lettori manzoniani. Ma l’occasione è ghiotta. Sono passati 10 giorni dall’ultima recita, e dunque queste righe, più che una recensione, vogliono essere una riflessione sul posto e sulla funzione della musica nel teatro di oggi.
50 anni fa Firenze e Venezia furono aggredite da un’ondata eccezionale di maltempo, ma più eccezionale ancora fu l’evidenza con cui la tradizionale disattenzione italiana alla cura del territorio provocasse catastrofi che, se forse non potevano essere evitate, potevano certo essere previste, controllate e se ne poteva pertanto ridurre il danno. L’esondazione dei fiumi non è fenomeno innaturale. L’antico Egitto ne traeva, anzi, la propria prosperità. Innaturale è, invece, la cementificazione incontrollata del territorio, soprattutto del territorio attorno ai fiumi, che toglie sfogo al deflusso delle acque. Se poi, come accadde a Firenze, ci si aggiunge l’insipienza e la scellerata irresponsabilità delle amministrazioni nazionali e locali ecco il disastro. Non si avvertì la popolazione fiorentina dell’arrivo della piena dell’Arno; per non provocare panico, si disse: giustificazione più imbecille dell’imprevidenza.  Era meno grave, per costoro, provocare un’alluvione inaspettata. Santa Croce e la Biblioteca Nazionale subirono danni irreversibili, e tutte le botteghe sui Lungarni furono devastate dalla furia del fiume. Una di queste, con antico, amaro umorismo tipicamente fiorentino, appiccicò sulla porta della bottega il cartello con su scritto: “Chiuso per umido”. A Venezia non fu peggio, ma fu ugualmente e colpevolmente distruttivo. L’acqua alta non è un fenomeno nuovo. Nel passato ci si difendeva vietando le attività commerciali ai piani bassi delle case. Ma anche regolando il deflusso dei fiumi, scavando e pulendo regolarmente i canali e i rii, insomma con un’opera periodica di manutenzione. Quello che le attuali amministrazioni regionali, provinciali e comunali non fanno. Per non parlare di quelle nazionali. La bonifica del delta del Po e la costruzione del Porto e del Centro Industriale di Marghera sono altre concause dell’aggravarsi del fenomeno dell’acqua alta.  L’ultima volta, comunque, che furono sistematicamente dragati rii e canali avvenne che Venezia era ancora austriaca. Dal 1866, cioè da quando divenne italiana, più niente. Ricordo che quando negli anni 90 si decise di dragare il rio sotto la mia casa di allora, affiorarono bidet, frigoriferi, tazze di gabinetto: i veneziani, insomma, avevano usato il rio come una comoda discarica. Senza pensare che ciò potesse alzare il livello dell’acqua. Anzi, sul Canal Grande ci fu una protesta dei gondolieri che si vedevano impedito l’accesso ai percorsi turistici, perché i canali venivano finalmente dragati. All’insipienza della amministrazioni si unisce, quasi sempre, il miope interesse di singole categorie. L’incendio della Fenice fu provocato dagli elettricisti che volevano provocare un piccolo incidente per non pagare la multa del ritardo con cui consegnavano i lavori. L’incidente uscì loro di mano e ci fu l’incendio del teatro. Ma questa è l’Italia. A Roma, finché fu captale dello Stato della Chiesa, ogni 25 anni, si ripulivano e restauravano le facciate di case e palazzi, sostituendo le pietre rose dall’umido e dal tempo. Dal 1870, cioè da quando la città divenne capitale d’Italia, più niente. Nemmeno strappare le sassifraghe dai cornicioni delle chiese. Poi si parla del degrado di Roma.
Perché questo lungo preambolo? Perché la ricorrenza di quella disastrosa acqua alta del 1966, che fu chiamata, proprio per le sue proporzioni, “aqua granda”, acqua grande, ha spinto la direzione del Teatro La Fenice, e cioè il sovrintendente Cristiano Chiarot e il direttore artistico Fortunato Ortombina, a commissionare un’opera che dopo 50 anni rievocasse quegli avvenimenti. Meritoria iniziativa, che restaura una pratica fino agli inizi del secolo scorso abituale: inaugurare la stagione di un teatro con un’opera nuova. A dire il vero, durante tutto il secolo precedente, e cioè durante il secolo XIX, la pratica si estendeva all’intera stagione.  Alla Fenice furono messe in scena per la prima volta, tra tante altre opere, il Tancredi e la Semiramide di Rossini (L’Italiana in Algeri e la serie della “farse”, negli altri teatri veneziani di S. Beneto e S. Moisé), Rigoletto, Traviata, Simon Boccanegra di Verdi. Il soggetto della nuova opera è stato tratto da un libro di Roberto Bianchin, Aquagranda, romanzo di un’alluvione. Bianchin stende anche l’abbozzo della sceneggiatura e il libretto viene scritto in versi da Luigi Cerantola. L’alluvione è vista dalla periferia della laguna, dall’isola che ne subì per prima, e in maniera più disastrosa, l’impatto: Pellestrina. E’ raccontata dalle paure e dalle angosce di una famigliola di bottegai. Poi c’è il coro, che rappresenta la voce di tutta la popolazione, e anche, un po’, la voce della Natura, dello Spettatore degli eventi naturali, assumendo dunque sia le funzioni del coro della tragedia antica che quelle dell’oratorio barocco. Diciamolo subito: è un libretto mediocre, la versificazione è banale, non ha vero ritmo musicale, e l’azione manca, non c’è una vera vicenda; i sentimenti dei personaggi rispecchiano un mondo chiuso, abbastanza gretto, locale, anzi quasi localistico, della piccola borghesia di paese. Niente di male, se assumesse il ruolo di spettatrice di una vicenda collettiva. Venezia è un borgo. Da grande città di mercanti è diventata città di bottegai e di pochi, pochissimi residenti, non più di 50.000, oggi, da circa 300.000 o più che erano nel suo splendore. Un circo turistico, una Disneyland. Già negli anni ’60. E gli interessi turistici già allora erano prevalenti sugli interessi della città. Non a caso, ormai, le istituzioni cittadine più importanti, quelle che funzionano, Biennale, Palazzo Grassi, Fondazione Cini, Guggenheim, non sono o non sono più veneziane. Proprio per questo si apprezza l’iniziativa del Teatro La Fenice, che va in controtendenza, e restituisce a Venezia il suo ruolo storico di capitale culturale, anzi di promotrice di una cultura nuova nel mondo, ruolo che non avrebbe dovuto mai perdere, nemmeno davanti al successo certo esponenziale, ma effimero, di qualche maschera e di troppe botteghe di cianfrusaglie e vetri di Murano fabbricati in Cina.
Filippo Perocco, il compositore della nuova opera, non aveva dunque un compito facile. Ma sceglie e prende la via migliore: quella di usare come filo conduttore dell’opera proprio la presenza di un coro, di una voce collettiva, che s’immedesima con il flusso e deflusso delle acque e delle vicende. Straordinaria la pagina in cui il coro presente, e poi vede, l’arrivo dell’acqua. Conosco la vocalità di Perocco. Da anni persegue un’espressione, o meglio una rappresentazione subliminale dei fatti, dei sentimenti.  Discreta, sottilissima, ai limiti del percepibile. Certo, come ha osservato qualcuno, ci si può sentire il modello di Sciarrino. Ma perché no? Quando si accusa un compositore di avere qualche modello, si parla di imitazione, di epigonismo. Ma ne siamo sicuri? Discorso simile si fa, spesso, e sconsideratamente, sul primo Beethoven: imita Haydn. E se invece Haydn fosse per Beethoven proprio il modello di un nuovo modo di comporre? E dove trovava Beethoven modelli nuovi, tra i suoi contemporanei, se non nel sempre rinnovantesi Haydn? Sarebbe come dire che un giovane compositore degli anni ’50 e ’60 del Novecento imita Stockhausen o Boulez. E chi dovrebbe prendere ad esempio se non  i compositori più nuovi del momento? Beethoven, poi, era talmente hadniano che attacca la sua prima sinfonia con un accordo di settima, dunque un accordo dissonante, che dovrebbe trovare una risoluzione, e la trova, ma non sulla tonica, come ci si aspetterebbe, bensì sulla dominante, e così l’impianto tonale fondamentale è di nuovo rinviato. Sembra che Haydn, alla prima esecuzione, si sia alzato borbottando che non si comincia così una sinfonia. Se l’episodio è inventato, com’è probabile, è tuttavia indicativo del fatto che già allora si sentisse chiaro il distacco tra i due compositori.  Haydn muore nel 1809, non lo si dimentichi. E Beethoven ha dunque il tempo di comporre l’Eroica, la Quinta, il primo Fidelio. Qualche eco beethoveniana c’è anche nella partitura di Perocco, lo squillo esultante delle trombe alla fine sembrano alludere, o citare, l’esultanza del finale della Quinta o della Nona Sinfonia beethoveniana. Ma Sciarrino è solo un fantasma lontano. Forse più vicino potrebbe sentirsi il materismo sonoro di uno Scelsi. O l’evanescenza lagunare dell’ultimo Nono. Quello del Prometeo o dell’ultimo quartetto. Ma perché cercare fonti o modelli? Ogni compositore rielabora la musica che chi viene prima di lui gli lascia. Il punto non sta nell’indovinare che cosa un compositore prenda e da chi, ma nel riconoscere che cosa ci sia di nuovo nella sua scrittura. E’ probabile che l’esigenza di rendere comprensibile a un pubblico, come quello italiano, poco avvezzo a digerire le arditezze della fantasia sonora contemporanea, stato chiesto dalla direzione del teatro a Perocco sia di ammorbidire le asprezze, sia di attenuare le dissonanze, sia, infine, d’irrobustire le evanescenze. Ecco allora che Perocco, libero di insinuare solo sussurri  e quasi impercettibili melismi nella tessitura corale, sia stato invece costretto a una vocalità più esplicitamente e tradizionalmente melodrammatica per i personaggi. Il contrasto si avverte, ma se sul piano musicale potrebbe sembrare incoerente, funziona invece, e splendidamente, sul piano  drammaturgico: e qui sta l’abilità drammaturgica di Perocco, nel trasformare in una componente drammaturgica ciò che avrebbe potuto incrinare l’unità della concezione musicale. Del resto, sembra che proprio la drammaturgia offra oggi al musicista di superare le contraddizioni, l’empasse insieme ideologico e di scrittura musicale, che la musica “pura”, magari solo strumentale,  oppone al compositore. Insomma, sempre alla ricerca di un effetto drammaturgico della pura struttura musicale, senza ricorrere perciò a effetti extramusicali, Perocco vuole affidare proprio al contrasto tra la vocalità del coro e quella dei personaggi lo stesso decorso, anzi la tensione dell’azione teatrale. Ma ciò detto, chi sa se, invece, una più sfumata vocalità anche dei personaggi, al limite del percettibile, che rispecchi l’onda lieve del coro, un suono catturato quasi sul punto di essere emesso, anzi addirittura un attimo primo ch’esso venga percepito, non avrebbe reso più intensa, e meno “melodrammatica”, appunto, la drammaturgia che Perocco insegue. Quasi un’immersione alle origini del suono, prima ancora che esso si manifesti. Naturalmente, solo come tensione verso un’irraggiungibile utopia: l’inattingibilità dell’intento rende proprio per questo più vera, se così si può dire, l’imperfezione della scrittura, o piuttosto, il non espresso più violenta l’irruzione dell’esprimibile. Il teatro di oggi non ama il realismo esplicito, anzi non ama proprio nessuna esplicitazione. Preferisce alludere, sottintendere, ammiccare, lasciare indovinare, affinare la percezione dell’udibile e del visibile ai limiti del senso, al punto di abolirlo, quasi: ma senza eliminarlo, e proprio perciò nella tensione tra il possibile e il reale costruire l’utopia di un mondo altro, che più che specchio di questo, ne sia il modello irraggiungibile. Quasi un Iperuranio delle Idee. Ma senza sogni metafisici. Perfettamente, e profondamente immersi nel visibile e nell’udibili, anzi dall’udibile e dal visibile sopraffatti, immedesimati o, per usare un neologismo di stampo dantesco, inudibiliati e invisibiliati, resi cioè puro visibile e puro udibile. A questo sistema di allusioni, quasi un codice interno della scrittura, un cifrario strappato ai senhal della poesia provenzale, concorrono anche certi madrigalismi, vale a dire il disegno simbolico degli intervalli o l’uso esplicativo delle armonie: per esempio in un madrigale cinquecentesco su una bellissima ottava dell’Ariosto, “Chi salirà per me, Madonna, in cielo”, il musicista compone una melodia ascendente, o Bach, nel Magnificat, scrive una linea ascendente alle parole “exaltavit humiles” e discendente a “debellavit superbos”. Il dialogo iniziale dell’opera vede due personaggi che guardano l’acqua: uno dice “la cresse” (sale), l’altro “la cala” (cala). Sarebbe stato prevedibile un intervallo ascendente per “la cresse” e invece Perocco ne usa uno discendente, si sarebbe così aspettato un intervallo discendente per “la cala” e invece si ode un intervallo ascendente, come se la musica contraddicesse le affermazioni dei personaggi. Ma poi Perocco, nel corso dell'azione, fa intonare a entrambi i personaggi un intervallo discendente. La musica smentisce le osservazioni del personaggio, come se la realtà non fosse quella che il personaggio vede e descrive. Ma tutta la partitura è piena di simili finezze “oratorie”. Non si dimentichi che proprio l’arte oratoria ha spinto i musicisti a inventare forme musicali equivalenti, figure musicali, cioè, che corrispondessero alle figure dell’arte retorica, metafora, sineddoche, metonimia. Anzi proprio da queste analogie si formò l’idea di una rappresentazione musicale degli affetti, cioè dei sentimenti, che i romantici, non percependo più la convenzionalità del codice retorico, scambiarono per espressione diretta del sentimento. Perocco sembra riallacciarsi invece proprio a questa tradizione rinascimentale e barocca di una musica rappresentativa di situazioni e sentimenti in virtù delle sue capacità allusive attraverso l’uso variegato, si direbbe trasversale, allusivo, incidentale, non diretto, dei suoni, timbri, volumi, ampiezze. E la felice idea di costruire non una vera e propria azione teatrale, ma una sorta di oratorio moderno, un poema sinfonico, in cui la distinzione tra natura e strumento musicale, tra natura e voce umana venga abolita. Qualcosa d’analogo alle piaghe d’Egitto descritte da Handel nel suo straordinario oratorio Israele in Egitto. E su questo piano, allora, benvenuta la fantasia onirica di Damiano Michieletto, il quale, della scrittura di Perocco ha colto il lato costruttivo fondamentale: l’intreccio contrappuntistico, da una parte, e la delicatezza allusiva dall’altra. E se in musica domina il contrappunto, che domini anche sulla scena. Una enorme scatola trasparente piena d’acqua sta sospesa sulla scena, dentro vi appaiono affondati uomini e donne che s’immergono e ne saltano fuori. Sulla scena due personaggi osservano lontano, verso il pubblico, il flusso e deflusso della laguna. Ecco già aprirsi un altro spazio davanti al palcoscenico, quello del pubblico, della cavea del teatro. Come nel quadro Las Meninas di Velázquez, lo spazio si apre, nella tela, qui sulla scena, verso il fondo, e davanti alla tela, qui, davanti al palcoscenico, verso il punto dell’osservatore.  Ma dietro la scatola, o vasca trasparente, si apre un interno di famiglia, in cui i personaggi parlano e agiscono, ma intravisti dietro il filtro dell’acqua. E ci sono tante sedie.  Riempiono tutta una parte della scena. Gli attori , figuranti e danzatori, anzi, le spostano e le ammucchiano tutte da una parte, a destra. Ci si chiede che senso abbia questo spostamento. Ma la vasca si apre e lascia cadere l’acqua, che invade la scena.  Gli attori si precipitano a raggiungere le sedie, vi montano sopra. Ecco spiegata, teatralmente, la funzione delle sedie. Sono il supporto per difendersi dall’alzarsi dell’acqua. Le stesse su cui prima si stava seduti. Hitchcock diceva che se a un certo punto del film compare una pistola in un altro punto deve sparare. E questo fa Michieletto: usa le sedie non come elemento scenico, come decorazione di un interno, ma come elemento della narrazione, come strumento drammaturgico. Tutto è teatro, anche la scena, anche il soprammobile, la decorazione. E, naturalmente, anche le voci. Anche il coro, disposto ai fianchi della scena, fino a invadere la platea. L’azione dell’oratorio, si fa azione mimica sulla scena, composizione astratta degli oggetti scenici, il cui movimento concorre a disegnare l’azione, parallelamente al canto, al suono degli strumenti. L’unità dello spettacolo, della sua concezione, è mirabile. Vi contribuiscono, splendidamente, le scene disegnate da Paolo Fantin, i costumi – quasi sciatti, dimessi, bellissimi – di Carla Teti, e le luci, perfette, di Alessandro Carletti. Sobri, efficacissimi, i movimenti coreografici di Chiara Vecchi, indispensabili i video di Carmen Zimmermann e Roland Horvath, imprescindibile la regia del suono e del live electronics di Davide Tiso. Bravissimi tutti gli interpreti vocali, citati sopra nella locandina: Fortunato, Andrea Mastroni; Ernesto, Mirko Guadagnini; Lilli, Giulia Bolcato; Leda, Silvia Regazzo;  Nane, Vincenzo Nizzardo: Luciano, William Corrò; Cester, maresciallo, Marcello Nardis. Come sempre lucidissima, penetrante la lettura musicale e la concertazione di Marco Angius, uno degli interpreti più attenti e accattivanti della musica di oggi, e non solo (provate ad ascoltare il suo Beethoven), ottima la prestazione dell’Orchestra e del Coro del Teatro La Fenice, preparato da Claudio Marino Moretti.  E infine. sorpresa! il pubblico capisce, applaude, decreta un trionfo. Doppia vittoria per il teatro: inaugurare con un’opera nuova e ottenere un successo, ma additare anche agli altri teatri la via da percorrere. Perché tutta questa paura dell’oggi? Basta fare le cose come si deve, e vedete, il pubblico non diserta la platea, ma anzi accorre e decreta un successo.

Fiano Romano, 21 novembre 2016

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