martedì 11 ottobre 2016

Silenzio marino




               SILENZIO MARINO

Il mare è una pianura che si perde
lontano all’orizzonte, ma la vista
è spezzata da un’isola, che s’alza
come se galleggiasse sopra l’acqua;
interrompe a sinistra uno scosceso,
bruno dirupo lo sguardo, e s’affonda
nell’acqua. Il martellio di un muratore
m’arriva lento dalla casa in cima
alla collina, dietro i fichidindia,
che alla mia vista occultano la mano
che martella: mi sembra il basso di una
canzone, e io l’ascolto nel silenzio
intorbidare questa pace; qualche
stridio d’uccello, il volo di una mosca:
ma non si muove un alito di vento.

Il tetto di una pergola protegge
la mia lettura, un libro che racconta
come  gli amori estinti , ritornando,
rompano la memoria, io la sospesi
per guardare, nell’aria, quasi fosse
la prima volta, questo strano, quieto
interludio del tempo, e non avverto
l’imminenza del sole che tramonta;
irrompe all’improvviso, da lontano,
un aspro raglio d’asino che scorre
e si rifrange lungo le colline,
ma resta, dopo un ultimo suo sbuffo,
nell’incavo del tempo, questa quiete,
e l’immobile scatto del silenzio.
Mi afferrasse tra queste immote pause
del dolore la fine del dolore,
io sentirei lo strappo che sopprime?
O nel mio sonno, si addormenterebbe,
finalmente placata, la mia vita?

Tholaria, Amorgós, Cocladi, Grecia, 10-11 ottobre2016

venerdì 7 ottobre 2016

L'avventura negli occhi

Si può vivere come reale un'immaginazione? Ciò che più allieta, ma anche ferisce, del vivere, è l'immaginazione di ciò che potrebbe accadere e non accade. Soprattutto quando è coinvolto il desiderio fondamentale del vivere.







Guardavi la compagna che distratta
sorseggiava una birra o m’ammiccavi
sorridendo un’intesa? I più violenti
 sono spesso gli amori immaginari.

Tholaria, Amorgós, Cicladi, Grecia, 6 - 7 ottobre 2016

Gli uccelli

Non sono Aristofane, e non ho dunque la sua divina leggerezza. Ma anche a me gli uccelli suscitano infinite, bellissime visioni.








Saltellano gioiosi sulle foglie
dell’agave, beccando e ribeccando
le piccole formiche, le farfalle,
le mosche che di foglia in foglia in fila
si rincorrono. Il loro cinguettio
disordinato invade tutta l’aria;
dai monti che strapiombano sul mare
alla finestra, l’allegria si  sfrena
sul pavimento bianco della mia
terrazza, e mi si schiude il senso
della vita. Non sembrano diversi,
questi piccoli uccelli, dai più grandi,
presuntuosi animali, che nel mondo
fanno solo più chiasso. Se tra loro
si beccano e svolazzano congiunti,
l’inimicizia non dura che un istante,
presto li vedi svolazzare insieme.
Ma noi, che pace o che guerra s’alza
tra le braccia, ci folgora sul viso?

Ciascuno, nel suo guscio, appare buono.
Ma Rousseau si sbagliava. Noi non siamo
come gli uccelli, quando il loro nido
li visita la madre e spalancati
becchi aspettano il verme che si muove.
Un avido rapace, appena fuori 
del nido, è l’uomo, e nella mischia,
uno sterminatore. Ricercarne
un senso, se si può, non cambia il mondo.
Sul  pianeta, la lotta per la vita,
è furibonda. Ma non vince sempre
chi è più forte, piuttosto chi è più furbo.

Se l’allegria di questi uccelli, il folle
disinibito slancio di buttarsi,
guardo rapito, tornano alla mente
le guerre, gli stermini, le selvagge
distruzioni che fanno della terra
del nemico un deserto. Troppo cauti,
questi homines sapientes, per buttarsi
nell’allegria di vivere. La lieve
spensieratezza di chi vola, pare
impudica. Col piede sulla terra,
cupio dissolvi è l’unico bersaglio
che puntano le frecce della loro
incomprensione. Se di ramo in ramo
sfarfallano gli uccelli e se volando
cinguettano l’amore per la vita,
un dio, chi sa, li approva e ne sorride.
Ma noi, che dio c’infuse questa rabbia?

Gli homines l’amore di sé stessi
con ferocia lo appagano, felici
di sbranare sul trivio lo straniero
che sbarra il passo. Fosse pure il padre,
lo colpisce lo stesso e baldanzoso
torna in città, perché frattanto ha sciolto
gli enigmi della Sfinge. Quanti enigmi
da sciogliere la vita gli riserva!
Ma lui, cocciuto, china gli occhi a terra,
e dal sangue di Urano fecondata,
la terra gli restituisce tutte
le sue furie. Lo accecano per sempre.

Questa festa d’uccelli svolazzanti
davanti alla finestra, un’altra festa,
una furia riaccende e riscatena:
questa mia furia d’inappartenenza,
che non so da che seme generata,
ma non sono, può darsi, un esemplare
del tutto ben riuscito di homo sapiens.

Tholaria, Amorgós, Cicladi, Grecia, 1 - 7 ottobre 2016

sabato 1 ottobre 2016

Da poeta a poeta



Oggi mi sono buttato (alla lettera: buttato a corpo morto, tutto quanto) a un esercizio che si è rivelato entusiasmante. Gli antichi Padri della Chiesa lo praticavano con la Bibbia. Io l’ho attuato sull’Iliade. Saltare, a caso, da pagina a pagina, e leggere il primo verso che mi capitava sotto gli occhi. Tra i molti, uno più bello dell’altro, mi ha colpito questo:
ς  εἰπὼν μὲν αὕτις ἔβη θεὸς ἂμ πόνον ἁνδρῶν ...
(Ρ, 82)
Ciò detto il dio di nuovo venne in mezzo all’angoscia degli uomini
(XVII, 82)
La grandezza di Omero sta in questo raccontare la guerra senza schierarsi, non esalta l’eroe, non invoca la pace, rappresenta l’orrore della strage senza giudicarlo. La vittoria di Achille su Ettore è una vittoria vana, come prima quella di Ettore su Patroclo. Il poema si chiude sulla solitudine di tutti: di Achille senza l’amico prediletto, di Priamo senza il figlio, di Andromaca senza il marito, di Astianatte senza il padre. Il lamento di Elena sul cadavere di Ettore sembra sposare questo sguardo disincantato del poeta, e piangere non solo l’eroe ammazzato, ma l’eterna e inconsolabile infelicità umana. Compresa bene dal Foscolo: “e finché il sole /risplenderà sulle sciagure umane”. Sciagura è bellissima traduzione di πόνος, che io ho tradotto angoscia. Il termine greco contempla tutti e due i significati. Intraducibilità della grande poesia. E, come sempre, la grande poesia è lo sguardo che guarda e non giudica.  Come Shakespeare. Come Goethe. Mi si opporrà che Dante, invece, giudica, anzi sul giudizio costruisce un intero poema. Ma non è mai un giudizio univoco. E nessuno sfugge a quest’equiparazione che ignora le discordie umane. Francesca è colpevole di aver ceduto a un amore adultero, di aver creduto lecito il libito, come Semiramide. Ma il poeta che le sta di fronte non è meno colpevole di lei. Anzi, si è illuso che l’amore salvasse, e di questa salvezza si sente proferire le parole da una dannata: “Amor ch’a cor gentil ratto s’apprende”. Il contrasto lo folgora, e perde i sensi. Alla faccia di tutti quei commentatori che ancora si ostinano ad affermare che Dante dimentica di parlare con una dannata. Non solo non lo dimentica: ma vi riconosce la propria stessa dannazione.
Sono andato lontano. Ma mi piace questo scorrere e volare da un poeta a un altro, dal verso di un poeta al verso di un altro. E mi viene in mente, ora, un altro poeta, John Ford, meno grande, certo, di Shakespeare, ma almeno una tragedia è degna di figurare accanto a Romeo and Juliet, ed è 'Tis Pity She's a Whore, Peccato che sia una puttana, la scena in cui il fratello rivela alla sorella il proprio amore incestuoso è meravigliosa. Lui: e adesso che sai questo, che facciamo? Lei: quello che vuoi. Nessun giudizio, solo rappresentazione delle passioni. O Seneca, Thyestes, Tieste. Atreo mostra al fratello Tieste le teste dei figli sgozzati e cucinati e fatti mangiare al padre. Li riconosci? chiede. Tieste: adgnosco fratrem, riconosco il fratello.  Storia di stupro, di odio e di vendetta. Se ne ricorderà Shakespeare nel Titus Andronicus.
Siamo pronti, noi, oggi, a capire questo sguardo? Gli orrori nel nostro tempo non mancano. Ma li lasciamo scivolare via come se non accadessero. E ci salviamo la coscienza giudicando mostro chi li commette. Dall’omicidio efferato di Luca Varani alle stragi di Aleppo. Mai che ci passi per la testa che ne siamo partecipi, responsabili. Erano bravi i grandi poeti a raccontarci il lato nascosto di noi stessi: noi, oggi, non vogliamo vederlo.
Tholaria, Amorgós, Cicladi, Grecia, 1 ottobre 2016.