giovedì 21 luglio 2016

Gianfranco Pecchinenda, L'ombra più lunga



Gianfranco Pecchinenda, L’ombra più lunga. Tre racconti sul padre, Napoli, Colonnese Editore, 2009, pp.80, € 7.00. In copertina: Antonio Pecchinenda, Detrás de la sombra (dietro l’ombra), 1970.
Che cosa pensa un malato di Alzheimer nel suo stadio terminale? Gianfranco Pecchinenda ha cercato di conferire parola a questo pensiero. Sta tutto qui il senso della sua scrittura. Che solo il linguaggio ci fa esseri che pensano, che guardano, vivono il mondo, e lo raccontano. Facile a dirsi. Più difficile a scriversi. Ma è la scommessa di questi tre brevi, intensissimi racconti: scrivere l’ineffabile, il non dicibile, ciò che non ha linguaggio o viene prima del linguaggio, oppure emerge quando non c’è più il linguaggio. Lasciamo perdere misticismi, pensieri sui misteri della vita, neoreligioni d’ogni latitudine. E’ vero, si parla anche del “pensiero” paleolitico, della concezione egiziana dell’oltretomba, o, più precisamente, del rapporto padre-figlio, come trasposizione del tempo, superamento del tempo. Ma non in senso filosofico, e tanto meno mitico, o di recupero storico di concezioni antiche, bensì solo nel quadro di un’esperienza vissuta: che cosa sono io, quando non posso più pensare, che cosa, quando non posso dirlo, il mio pensiero? E che cosa sono, in quel punto di mutismo, io per gli altri? o gli altri, per me? L’intestazione dei tre racconti recita: “Raconter, c’est / Raconter la mort”. E dopo, in testa alla “Nota dell’autore”:  “Quando i padri hanno dei progetti, i figli hanno dei destini”. Il narratore s’inserisce esattamente nell’interstizio tra il sorgere delle emozioni e dei pensieri, prima, e, dopo, talora immediatamente, il loro esprimersi in un linguaggio, non in uno qualsiasi, ma in quello, e in nessun altro: solo il fatto di essere detta rende reale alla coscienza la vita. L’antropologia e la psiconeurologia moderne confermano l’intuizione di Aristotele che la differenza specifica dell’uomo è il fatto di parlare, il linguaggio. Tutti gli animali, e anche i vegetali, comunicano tra di loro, ma solo l’uomo è capace di parlare.  Ed essenza fondamentale del linguaggio è il fatto di designare anche l’assente. Questo ha reso l’uomo padrone del mondo. Il linguaggio gli permette, infatti, di programmare l’azione, di non agire solo dietro l’impulso del momento. Anche i mammiferi predatori programmano la loro azione predatrice, e non solo i mammiferi, perfino certi insetti, per esempio gli aracnidi. Ma solo in vista della preda. L’uomo, invece, può programma re la caccia di una preda che non vede, che non sa se apparirà. La preda di Gianfranco Pecchinenda è la vita catturata dalla scrittura. Ma ciò significa anche che la scrittura si colloca nel confine tra la vita e la morte, si confronta anzi, a corpo a corpo, con la morte e perfino con la possibilità di non poterle raccontare, né la vita né la morte, di scomparire prima di averle circoscritte in una frase, vale a dire nel cerchio magico del linguaggio.  Questo rende lo stile di Pecchinenda così intenso, quasi febbrile. E tuttavia freddo, distaccato, come il racconto di uno scienziato che osservi l’estinguersi della vita. L’intensità, l’incandescenza febbrile sta nell’oggetto raccontato, tanto più incandescente, tanto più febbrile, quanto più il racconto, il concretarsi del linguaggio sembra distaccarsene, registrarne solo la fenomenologia. Il primo racconto, La Pampa Verticale, sembrerebbe un’autobiografia. Ma non dello scrittore, bensì del narratore condotto sulla pagina dallo scrittore.  E anche questo è importante. Lo scrittore non si rivela mai in prima persona. In prima persona si confessa il narrante raccontato dallo scrittore. E questo accade in tutti e tre i racconti. Nel primo il narrante racconta tre esistenze di una stessa persona, che tuttavia sono tre persone. Come in Mattia Pascal, citato. Ciascuna di queste esistenze dura 25 anni. La prima si conclude con un matricidio. La seconda con lo sgozzamento del padre. La terza con l’attesa che il figlio del narrante faccia la stessa cosa con lui. Nessuno di questi omicidi è un crimine, ma tutti la giustificata soppressione di un’insostenibile sofferenza. Lo chiarirà l’ultimo racconto: la sofferenza di perdere sé stesso, nell’atto di perdere la capacità di dirsi. Il secondo racconto, L’Ombra ineludibile, affronta inferni che nella vita quotidiana si pensa di non vedere, di evitare, di non pensarci, che non ci capiteranno. E invece capitano. Che si può avere un malore, in un cimitero, ed essere scambiati per morti, ed essere seppelliti, senza che ci si possa opporre, ma nel contempo si sente, si vede, e si sa che ci seppelliscono. Il Padre (con la maiuscola) che ci accompagna, non parla, una malattia gli ha tolto la voce. Il suo silenzio diventa così specchio del silenzio che c’inghiottirà tutti. Il racconto ha un finale aperto. Il che lo rende ancora più conturbante. Il terzo racconto, infine, il più bello, Lo Sguardo, quello del malato terminale di Alzheimer,  ci sbatte in faccia una realtà che vogliamo cancellare, confinandola negli ospedali. A casa non si sopporta più questa indicibile, inespressa e inesprimibile sofferenza. La straordinaria bellezza e intensità di questi racconti sta proprio in questo proporci una realtà che non vogliamo vedere. Ma senza ricorrere, tuttavia,          a retorici appelli alla commozione, anzi restando nella scrittura di una prosa accuratissima, distaccata, quasi gelida, quasi il resoconto di una diagnosi medica, che lascia intravedere tra le righe l’insoffribile sofferenza che nella vita quotidiana cerchiamo di non vedere.  E’ una prosa assai complessa, che rifiuta tanto la paratassi oggi così di moda, soprattutto in Italia,  quanto un’accademica e leziosa costruzione ossessivamente e leziosamente ipotattica.  Paratassi e ipotassi sono usate quando servono e per ciò che servono. Gli scrittori oggi alla moda da noi sono serviti. Compresi i vincitori dello Strega. Troppo accurata, troppo consapevole, troppo controllata, una prosa simile? Ma è questa, che piaccia o no, la vera prosa di uno scrittore. Varia, imprevedibile, complessa, sempre sorprendente, mai banale. Per gli scrittori di lingua inglese, spagnola, francese, di oggi, sembra ovvio. Leggetevi l’ultimo romanzo di Julian Barnes, The Noise of Time, e mi direte. Ma leggetelo in inglese, per favore. Troppo spesso le traduzioni tradiscono la scrittura dello scrittore. En passant, il romanzo di Barnes non parla di delitti più o meno celebrati, di psicopatie della vita quotidiana raccontate come gossip intriganti, bensì di un grande e complesso tema di cui la letteratura ha parlato da Omero in poi: il rapporto tra arte e potere. Il protagonista del romanzo è Šostaković. Ricorda, ma solo in parte, il Ravel di Echenoz.
In calce, per il lettore che voglia informazioni, e incuriosito da queste mia lettura, voglia acquistare il piccolo ma prezioso libro di racconti, ecco le notizie sullo scrittore offerte dall’editore:
Gianfranco Pecchinenda è nato a Napoli nel 1963. Figlio di emigranti, è cresciuto in America Latina, dove ha compiuto gran parte dei suoi studi. Ritornato in Italia, si è laureato in Sociologia e in Filosofia ed ha poi intrapreso la carriera accademica. Attualmente insegna Sociologia della Conoscenza all’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e, presso lo stesso Ateneo, è Preside della Facoltà di Sociologia.
Fiano Romano, 21 luglio 2016

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