martedì 17 maggio 2016

Schoenberg, Pierrot Lunaire, Anna Clementi e Andrea Vitello



SCHÖNBERG, PIERROT LUNAIRE
PORTERA, RED MUSIC
ANNA CLEMENTI
ENSEMBLE BIOS / ANDREA VITELLO
CONTINUO
Ascoltarlo, oggi, il Pierrot Lunaire di Schoenberg sembra quasi musica romantica. E, in parte, lo è. Lo è almeno il principio che la musica debba essere espressiva. Non vi rinuncerà nemmeno Webern, capace di chiedere in partitura ausdruckvoll (espressivo) al violinista che in quel punto sta suonando una sola nota. Semplicemente stava mutando il concetto di espressività. L’espressione non è più la manifestazione di un sentimento personale, del personaggio o dell’autore, ma la connotazione di una situazione. Non è più il singolo a dire il proprio dolore, o la propria gioia (più raramente), ma il poeta, il drammaturgo, il compositore che guardano la sofferenza del singolo, e la rappresentano, senza commentarla, guardano le smorfie, i contorcimenti, l’agonia del singolo, ma senza commuoversene. Nella letteratura tedesca un simile atteggiamento ha radici profonde. Si riscontra già nelle poesie di Heine e nel teatro di Büchner. Non a caso proprio un dramma di Büchner Berg prese a soggetto della propria opera, anzi il testo stesso del dramma: Woyzeck, che per un refuso dell’edizione posseduta da Berg, diventa Wozzeck.  L’anno in cui nasce il Pierrot Lunaire segue di tre anni l’Elektra di Strauss. Il clima è quello. Schoenberg chiede all’interprete di non immedesimarsi con il personaggio beffardo, maligno, anche cattivo, di Pierrot. E a distanziare ogni tentazione di recitazione realistica o di canto sentimentale, escogita il sistema dello Sprechgesang, alla lettera “canto parlato”. Monteverdi chiamava il suo melodizzare teatrale “parlar cantando”. Le intenzioni sono quasi le stesse: isolare l’emotività del canto, racchiuderlo nel continuo del parlato, non della melodia. Ma per Monteverdi l’intenzione è di giungere alla radice sonora del linguaggio, alla musicalità immanente della parola. Come poi per Debussy. O per Musorgskij. Schoenberg, invece, vuole sradicare la parola dal suo sostegno musicale, distanziarla dalla sua fascinazione emotiva. Qualcosa in musica, che si potrebbe confrontare al ”correlativo oggettivo” di Eliot. La poesia non sta, insomma, nell’ “espressione” di un’emozione, di un sentimento (con buona pace di Benedetto Croce), bensì nella rappresentazione neutrale di una situazione. O di un concetto. E la musica, allora, diverrebbe l’eco estraniata di qualcosa che si può rappresentare, ma non esprimere. In parole povere, i sentimenti sono incomunicabili, ma la loro rappresentazione, o piuttosto la rappresentazione dei loro effetti sul corpo, sulla voce, possono mostrarsi sulla scena, o in un cabaret: e farsi espressione, ma espressione esasperata. Che poi si chiamerà espressionismo. Questa musica ha molto del cabaret, dell’estraniazione, dell’allucinazione del cabaret. Le poesie di Albert Giraud (pseudonimo di Émile Albert Kayenberg), poeta simbolista belga, una sorta di fratello minore di Maeterlinck, non sono un granché. La traduzione tedesca di Otto Erich Hartleben le fa sembrare più belle, o quanto meno più incisive. La raccolta Pierrot Lunaire ne comprende 50, Schoenberg ne sceglie 21, tre volte sette, in modo da costruire tre parti uguali di 7 pezzi ciascuna. Come Bach, Schoenberg è un patito di numerologia. Aspetta a pubblicare la partitura, in modo che abbia il numero di opus 21. Posseggo un prezioso LP, in vinile, dunque, della Philips, in cui lo stesso Schoenberg dirige il suo Pierrot Lunaire. La voce, indicata come “récitante” è quella di Stiedry Wagner. I musicisti sono Rudolf Kolisch, violino e viola, Stefan Auber, violoncello, Eduard Steuermann, pianoforte, Leonard Posella, flauto e ottavino, Kaliman Bloch, clarinetto e clarinetto basso. Il disco fa parte di una collana di “Hommages”. Gli altri cinque sono a Pablo Casals, Alberti Schweitzer, Joseph Szigeti, Bruno Walter, Clara Haskil. E’ un’incisione molto istruttiva. Schoenberg è ritmicamente implacabile, come pretende nelle note della partitura. Ma più tollerante sull’adeguamento allo Sprechgesang dell’interprete vocale. Anche in questo si rivela la sua profonda natura di musicista. E Anna Clementi? Al primo ascolto non volevo credere alle mie orecchie. L’adeguamento è totale. Non so quanto abbia influito essere figlia di uno dei più grandi compositori del secondo novecento italiano, Aldo Clementi, che del rigore della scrittura, e dunque anche, naturalmente,  dell’interpretazione, aveva fatto il suo principio inderogabile.  Ma certo è che qui ci si sente appunto trascinati in un immaginario cabaret, la voce sembra custodita in una teca di cristallo sul quale piombi di striscio l’occhio di bue delle luci di scena. Si pensa anche al prologo della Lulu di Alban Berg. L’estraniamento è dunque totale. Ma proprio per questo l’efficacia espressiva immensa. La voce è piccola, acuta, appunto, si pensa a Lulu. Ma penetra il cervello come uno spillo implacabile. Le parole sono sillabate una per una, con dizione inequivocabile, percepibile. E’ un tedesco bellissimo (chi sa perché i nostri connazionali pensano che il tedesco sia una lingua dura, sgradevole, ferrigna: la lingua di Goethe, di Mörike, di Rilke, di George, di Benn, di Celan? intonata da Schubert, da Schumann, da Wolff?). Schoenberg non fa eccezione. E Anna Clementi vi affonda dentro insieme con rigore e con passione. E’ già musica il suono della lingua, che senso ha intonarla? Meglio dirla con l’accenno di un tono, colto e subito lasciato, come una Sängerin, o piuttosto una Schauspielerin, che irrompa dal cabaret di una Berlino Jugendstil!  E invece no. E’ la Berlino di oggi. E Schoenberg, sulla sua bocca, con la sua voce,  è un nostro contemporaneo. Ogni pagina di questo capolavoro ci trafigge. Ascoltate il numero che s’intitola Valse de Chopin (n. 5). L’intelaiatura contraffatta  di un rarefatto, ma intricato contrappunto, non riesce a mascherare del tutto l’affinità spirituale con La Valse di Ravel, posteriore di soli 7 anni. Ma in mezzo c’era stata l’ecatombe della Grande Guerra. Preannunciata da Schoenberg, constatata da Ravel, si respira la fine di un mondo. O, due numeri dopo, Der kranke Mond, la luna malata. Un flauto, la voce, che finisce tremando. Il brano chiude la prima parte. La seconda si apre con  Die Nacht, la notte. Il pianoforte introduce con suoni gravi, cupi, l’atmosfera del pezzo. La voce tocca qui vertici di recitazione espressionistica. O il numero 19, Serenade, lo struggente violino che precipita nel vuoto, la voce che, subito dopo, cade. Ma i pezzi vanno ascoltati con grande raccoglimento uno per uno. In ognuno la realizzazione del programma di distanziamento espressivo per ottenere il massimo di efficacia rappresentativa, si raffina, procede. E in ognuno si ammira il grande controllo di ogni musicista. Anna Clementi  risalta tanto più, in questo controllo, quanto più gli strumenti la fasciano, la sostengono con un tessuto musicale egualmente controllato. Bravissimo, Andrea Vitello, a tenere insieme tutta la compagine. Non una sbavatura, non una distrazione, un’approssimazione. Tutto al punto in cui deve essere, anche nei momenti di maggiore foga. L’Ensemble Bios  (Giuseppe Bruno, pianoforte, Luciano Tristaino, flauto e ottavino, Marcello Bonachelli, clarinetto e clarinetto basso, Alberto Bologni, violino e viola, Jacopo Francini, violoncello nel Pierrot Lunaire, sostituito da Carlo Benvenuti per l’altro brano del cd, Red Music), segue, realizza pienamente le intenzioni del direttore. Talora, in certi brani, il furore sembra condurli fuori strada, esasperare  l’interpretazione. Ma si tratta di un’esasperazione voluta, controllata. E qui sta la loro bravura, la loro efficacia d’interpreti. Tutto il lavoro si fa ammirare sia per l’intelligenza della lettura sia per l’efficacia delle rappresentazioni musicali. Nel cd è contenuta anche la Red Music di Andrea Portera, compositore fiorentino nato nel 1973. Si divide in tre pannelli: 1. Sonatina (tribute to Prokofiev) 2. Carillon, (... thinking Shostakovich) 3. Untitled (Hommage an Rostropovich). Le avanguardie darmstadtiane sono lasciate alle spalle, anche se non dimenticate. L’interesse di questa musica sta proprio nella rinnovata innocenza di reinventare un modo di rendere la musica di nuovo rappresentativa. Un filo sotterraneo, perciò, la unisce forse al Pierrot Lunaire, se non altro l’organico. Gli echi del neoclassicismo prokofieviano, nella Sonatine,  però, e le ombre della Quarta di Šostakovič, nel secondo pannello, i giochi ironicamente sopracuti ma sopraffatti infine dai suoni gravi del violoncello del senza titolo finale alludono, chi sa, a fantasmi non ancora placati.
Fiano Romano, 17 maggio 2016

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