lunedì 16 maggio 2016

Altre note sulle mazurke di Chopin interpretate da Alberto Nones



NOTE IN MARGINE SULLE MAZURKE DI CHOPIN INTERPRETATE DA ALBERTO NONES
CONTINUO
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Dalle note precedenti sui due cd incisi da Alberto Nones, che contengono l’interpretazione di tutte le mazurke di Chopin, potrebbe sembrare che il pianista abbia risolto tutti i problemi dell’interpretazione delle mazurke. Non è, naturalmente, così, perché nessun pianista, nemmeno il più grande, può risolvere tutti i problemi interpretativi di pagine così complesse come le mazurke di Chopin. Ogni interpretazione è la proposta di una lettura, e tale lettura mette in rilievo taluni aspetti della pagina interpretata, lascia in ombra altri Faccio un esempio grandissimo: ritengo che le Variazioni Diabelli di Beethoven registrate da Sviatoslav Richter a Praga, in un concerto, siano a tutt’oggi l’interpretazione più interessante e bella di questa pagina sublime. Richter legge Beethoven come incunabolo della modernità, s’intravedono Chopin, Brahms, Schoenberg, Bartók. E perfino lo Stravinsky neoclassico (Richter in fondo nasce da lì!). Qualcuno potrebbe obiettare che questo sia uno stravolgimento di Beethoven. Se lo è, allora sono uno stravolgimento di Wagner anche il Parsifal e il Ring bayreuthiani di Boulez. Ogni interpretazione è sempre, di fatto, uno stravolgimento. Anche quella che si propone la “fedeltà assoluta”. Ma fedeltà a che cosa? alla partitura? e quanto è fedele alle intenzioni del compositore un piano rispetto a un pianissimo, a un mezzo piano? come si fa a stabilirlo? Colui che viene sempre presentato come campione della fedeltà, Toscanini, in realtà non lo è nemmeno lui. Un esempio tra mille: l’attacco strumentale del brindisi, nella Traviata, richiederebbe un piano. Toscanini attacca fortissimo.  Fu rimproverato a Boulez di avere accelerato i tempi del Parsifal.  Ma se si confrontano i suoi tempi con quelli della prima rappresentazione diretta nel 1882 da Hermann Levi, sotto il controllo di Wagner, si scopre che il primo atto diretto da Levi dura un’ora e 47 minuti, diretto da Boulez un’ora e 35 minuti, dunque una durata assai simile. Knapperbutsch lo faceva durare un’ora e 56 minuti, e siamo sempre nei limiti, più o meno, della prima rappresentazione. Il più lungo, invece, contro ogni aspettativa, è quello di Toscanini: due ore e 6 minuti.  Ciò vuol dire che noi, oggi, siamo ormai avvezzi a tempi più dilatati. Per curiosità di cronaca, il Fidelio più breve fu quello di Furtwaengler a Vienna, un direttore che passa per lento. Tutto questo per dire che un’interpretazione va ascoltata non per controllare quanto corrisponda alle nostre idee e aspettative, bensì per capire che cosa ci proponga di nuovo o di consueto. Lo stesso principio metodologico vale anche per queste mazurke di Chopin interpretate da Alberto Nones. Aggiungo qui qualche osservazione. E mi scuso per le digressioni. Ma fanno parte, appunto, della discussione sulla critica, sul metodo di una critica. Avrei voluto scrivere, anche, e diffusamente, di qualcuna delle mazurke (soprattutto, per esempio, dell’op. 50, e in particolare della n. 3, pagina visionaria e allucinata, nella rievocazione del contrappunto bachiano). Ma mi è sembrato di appesantire il testo. Magari, forse, un’altra volta ci ritorno sopra, in un’antologia dell’interpretazione chopiniana. Talune soluzioni interpretative proposte da Nones mi paiono, tuttavia, ancora irrisolte, e come potrebbe essere diversamente? Immagino il senso d’inadeguatezza che ciascun interprete, che non sia un inguaribile narciso, possa provare quando affronta pagine di così intricata complessità strutturale. Ma il contrasto dinamico tra certi pp e certi ff mi appare talora troppo brusco. Il rubato, qui e là, troppo esibito, poco fluido, poco naturale. Ma sarebbe cercare l’umido in una tazza di tè. Il risultato complessivo è mirabile. E il messaggio arriva. Quello, appunto, della complessità tremenda di ciascuna pagina, del frammento di ciascuna pagina, la fatica di accostare qualcosa che sembra quasi inaccostabile, e infine il tormento, quasi una sofferenza intellettuale, prima che emotiva, di fare emergere un sommerso dolorosissimo dalla leggerezza della danza, che invece di nasconderlo lo fa affiorare nel suono, nel ritmo, ora esitante ora deciso, più efficacemente, che se lo gridasse spavaldamente in un empito eroico (ci sono le polacche, per questo, ma anch’esse non evitano - anzi! - l’ellissi, la reticenza, il sussurro sommesso). Insomma: queste mazurke, oltre ad affascinare, a illuminare la mente, commuovono. Se posso confessarlo, vi ho riconosciuto il “mio” Chopin. Vale a dire la ricerca di esprimere l’inespresso, il non scritto. L’antica teoria estetica indù (dhvanaloka) direbbe che la poesia sta proprio nell’inespresso, nel non detto, il sostrato che sorregge il testo di ogni poesia. In musica è forse il cuore della pagina, per esempio, tra gli altri, anche per Haydn e, soprattutto, per Schubert, e non parliamo di Schumann. Ma il punto di riferimento, per tutti, compositori e interpreti, resta Bach. In particolare, oltre all’irrinunciabile Clavicembalo ben temperato (ma quando ci decideremo a chiamarlo col suo vero titolo: tastiera ben temperata? dunque qualsiasi tastiera, non solo il clavicembalo), le Partite. L’allemanda della quarta, in re maggiore, è probabilmente il modello di molte pagine di Schumann. Da quell’allemanda si arriva alle Bagatelle di Beethoven, e ci si apre un mondo visionario, come se Beethoven contenesse già lo sviluppo di ciò che avrebbero detto i romantici e poi soprattutto Schoenberg. Insomma, è sbagliato dire che un compositore anticipa un altro, è vero esattamente il contrario: i compositori sviluppano le intuizioni di chi li ha preceduti. E’ questa la tradizione, non l’imitazione di un modello perfetto. In tal senso gli ultimi trii di Haydn sono un vulcano di idee, vi si riscontrano già i modelli della musica di Schubert, compresa l’immediata alternanza modale sulla tonica, maggiore-minore (ma se ne sentirà stimolato anche Beethoven nel quartetto op. 130). Forse gli zingari della campagna ungherese e austriaca, che Haydn ascoltava dal castello di Eszterháza e Schubert nelle Heuriger dei dintorni di Vienna, offrivano, già prima che a Liszt, anche a loro, evocazioni irresistibili. Come, appunto, accade a Chopin per le mazurke contadine, ascoltate nelle sortite di villeggiatura estive, o quelle cittadine dei salotti di Varsavia. C’è ancora un altro aspetto da mettere in risalto. Albero Nones fa bene a trascurare una maniera considerata tipicamente polacca, ch’è invece spesso leziosa, ma piace tanto a certi pianisti alla moda e a troppi dilettanti. In Chopin non c’è mai nulla di lezioso. Anzi, più spesso la sua musica suona aspra, urticante. E Nones lo mette bene in evidenza. A qualcuno potrà sembrare talora troppo rude, troppo rozzo. Ma solo a chi confonde la fierezza con la rozzezza, il non finito michelangiolesco con l’abbozzo frettoloso.  Chopin usava spesso, suonando, aggiungere fioriture. Come lo facevano i cantanti nelle arie. E prima di Chopin, lo faceva Mozart. Siamo, infatti, sicuri che la scrittura di Mozart, così asciutta, e per noi così moderna, che ama distanziare singole note nei registri lontani, soprattutto col pianoforte, penso al Concerto in la maggiore K. 488, tempo lento, coda, vada eseguita così asciutta e non vada invece riempita con arpeggi, scalette che coprano la distanza? E Bach, se suonato al pianoforte, dovrà rinunciare ad ogni sfumatura dinamica? Ma allora che senso avrebbe la scelta del pianoforte, invece che del clavicembalo? E il fraseggiare bachiano, che sappiamo liberissimo sul clavicembalo, dobbiamo irrigidirlo in una metrica rigorosa, quando è eseguito col pianoforte, come pretendono certi interpreti e soprattutto certi insegnanti di conservatorio? Nones aggiunge fioriture nella melodia di una delle mazurke, non so se registrata da un manoscritto o da un’edizione che non conosco, o se inventata lì per lì da Nones stesso. Ci stanno benissimo. Lo faceva anche Wanda Landowska con Mozart. Se l’interpretazione potesse risolvere tutti i problemi dell’interpretazione non ci sarebbe interpretazione. L’Iliade che leggiamo noi oggi non è quella che scrisse e recitava Omero, nemmeno se la leggiamo in greco. Quanto al folk, siamo rimasti a lungo schiavi di un equivoco. Nemmeno Bartók ha mai pensato di “restituire” con il pianoforte, il quartetto, l’orchestra, l’”autentica” musica popolare. Non c’è niente di più inautentico che la ricerca dell’autentico, scrive Adorno. E siamo d’accordo con lui, su questo. Ossessiona i mediocri senza personalità. Ma anche Bartók, invece, vedeva nei procedimenti della musica popolare non melodie o ritmi da imitare, ma possibilità e libertà che la tradizione colta si era lasciata per strada. Nei procedimenti, dunque, e non nelle melodie belle e fatte o nei ritmi prefigurati. E questo fa già Chopin. Come faranno Smetana e Dvořák, Musorgskij e perfino Čajkovskij. Una volta, tanti anni fa, scrissi, nella recensione di un concerto, che Beethoven era insensibile alla musica popolare, perché aveva armonizzato i canti popolari scozzesi come se fossero canti di qualsiasi popolo, senza carattere nazionale. Salvatore Sciarrino me lo rimproverò. Mi disse che Beethoven aveva trasferito su un altro piano, su un’altra consapevolezza, procedimenti che lo interessavano proprio perché diversi dalla tradizione colta, ma li aveva poi assimilati a questa tradizione. Insomma Beethoven non fa cattivo folklore. Aveva ragione e mi sono ricreduto. Del resto, lo stesso Sciarrino ha rielaborato, e meravigliosamente, le canzoni da battello veneziane e le canzoni di Cole Porter. Nemmeno Chopin è tentato dalla riproduzione del folklore, in un momento in cui, invece, i romantici, poeti, musicisti, pittori, idealizzavano il popolo come sorgente e modello d’ogni espressione del bello. Il compositore attento, consapevole, non rinuncia mai, invece, all’elaborazione “colta” di tutto ciò che il mondo dei suoni, dal canto degli uccelli al fischio dello zappatore (ah! Leopardi!), dallo sbattere degli sportelli dei treni (penso a Carducci, ma anche ai mottetti di Montale) alle canzonacce di San Remo, gli porta alle orecchie. Ma la personalità del poeta, del compositore, sta appunto nell’elaborazione “colta”, consapevole, di quanto lo suggestiona, non nella riproduzione pappagallesca di supposti “autentici” canti popolari. In questa trappola, per esempio, si è guardato bene dal cascare un musicista colto, attento, come Roberto De Simone. La Nuova Compagnia di Canto Popolare è, per nostra fortuna, una sua personalissima reinvenzione del canto popolare napoletano, e non lo scimmiottamento di chi sa quale popolarità immaginaria. E’ sempre accaduto. Si pensi alle messe polifoniche rinascimentali su un canto goliardico osceno come “L’homme armé”, dove si parla di “armi” che s’infilano davanti e di dietro. Qualcuna di queste messe è sublime. Ma del popolare non ci restituisce nemmeno l’ombra. Sto, tuttavia, divagando. Ma non troppo. Un’ultima notazione. Ciò che sembra emergere da questo Chopin delle mazurke è soprattutto la profonda, inguaribile, anche se dolcissima, tristezza dell’esiliato. Ma può darsi, chi sa, che ogni artista è a suo modo un esiliato. Ed è questo suo comunicarci un esilio che ci commuove, noi perenni esiliati del mondo.

Fiano Romano 16 maggio 2016

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